Ritorno alle radici

Ero appena tornato da Torino. Dopo quella telefonata di mio padre due giorni prima, avevo passato ore d’inferno in quella città fredda del nord. Avevo percorso freneticamente avanti e indietro il corridoio del bilocale in cui vivevo nella periferia di quella grigia città industriale, decine e decine di volte, nervoso. Agitato. Pensando a mio nonno, alla sua amata terra, ai suoi alberi, a quello che di poco gli era rimasto e a come si potesse sentire in quei momenti solo in masseria, senza più neanche nonna a calmarlo e tranquillizzarlo. Dovevo assolutamente scendere in Puglia ed  essere al fianco di mio nonno in masseria.
Così feci.
In una  fumata di sigaretta avevo prenotato un biglietto per tornare giù, senza esitare un momento. Il viaggio durò un attimo in realtà, fu un viaggio veloce, se veloce si può definire un viaggio in bus di dodici ore. Ma  ero già lì,  seduto sul mio solito muretto a secco che divideva la masseria del nonno da quella di zio Giuseppe morto qualche anno prima. Ero seduto sul mio solito pezzettino di muretto a secco, quello che sin da piccolo era diventato il mio personalissimo punto d’osservazione sul mondo che mi circondava. Nessuno ci si poteva sedere o avvicinare perché ne ero gelosissimo. Da lì si riuscivano a vedere tutti gli angoli della masseria, non sfuggiva nulla al mio occhio attento. Riuscivo a vedere anche gli anfratti più nascosti accovacciato su quelle pietre.
Ora però Il mio sguardo da bambino innamorato della sua terra si era fatto adulto. Avevo lasciato la mia amata Puglia, quella che mi saziava ogni giorno, per seguire un sogno. Un capriccio per i miei. Volevo studiare cinematografia, mi ero iscritto da qualche anno ad un corso di laurea a Torino appunto,  ma in realtà ero chiuso in un call‐center da otto mesi per riuscire a sopravvivere lì al nord e non pesare sulla già traballante economia familiare.
Mi mancava la terra rossa sotto i piedi però, sono sincero. Quella terra rossa che profumava di fichi d’india, delle polpette al sugo della domenica. Mi mancava mangiare i fichi ancora acerbi direttamente dall’albero. Assaggiare il loro latte aspro appena staccati dalla pianta. Mi mancava correre per ore in mezzo al grano più alto di me. Mi mancava il vento addosso, quel vento che portava con se tutto il gusto di una terra bellissima. Mi mancava guardare il nonno raccogliere le olive, la nonna cucinare il pane fatto da lei nel forno a legna proprio fuori il casolare. Ricordo come fosse oggi l’odore della farina, della legna bruciata, dei panetti appena sfornati e lasciati a raffreddare sul marmo bianco del tavolo in legno che era in veranda. Mi mancava assaggiare i pelati caldi appena cotti da zia Anna, ci immergevo le dita senza che nessuno se ne accorgesse. Mi mancava il vino bevuto di nascosto dietro la grande poltrona che puzzava di naftalina piazzata proprio  di fronte al camino. L’uva  rubata sotto il filaro.  Inseguire le lucertole con mia sorella Giovanna. Mi mancava contare tutti gli ulivi del nonno messi in fila di fronte a me. Erano tantissimi, bellissimi. Secolari. Il nonno ricordo ancora che spesso mi raccontava la loro storia e che alcuni di quegli alberi erano lì da centinaia di anni. Mi mancava tutto questo e tanto altro ancora. Tanto tanto altro ancora.
Ero seduti lì, sul muretto a secco fatto di pietre pugliesi, ben incastonate nel paesaggio, il mio personalissimo punto di vista sul mondo che mi circondava, e non sentivo la stanchezza di un viaggio fatto in fretta e furia, preoccupato per mio nonno. Ero seduto lì a guardare quello che succedeva ma in realtà ero tornato indietro con gli anni e mi ero isolato nei miei ricordi di bambino felice e sazio della sua amata terra, dei suoi mille odori, delle sue fragranze tutte diverse, dei suoi colori,  quelli che mi nutrivano ogni santo giorno, con la loro storia,  il loro gusto.
Ero tornato  quello che amava la ricotta forte e i pomodorini freschi sulle bruschette calde della nonna. Le melanzane sott’olio, i carciofini freschi. Sarei dovuto tornare il lunedì successivo a Torino ma quello era l’ultimo dei miei pensieri in quel momento. L’ultimo dei problemi.
<<Cosimo, Cosimooo>> gridò Giovanna. Tutto d’un tratto,  e di colpo tornai a quella triste realtà che era proprio sotto i miei occhi adulti ormai, abbandonando i ricordi d’infanzia. Una realtà fatta di troppe “x” rosse sui tronchi d’ulivo secolari del nonno, tornai a guardare le lacrime grosse che vedevo scendere sul suo viso rigato dal del tempo. E allora: << Dimmi Giovà dimmi>> risposi indispettito.
<<Dimmi dai>> continuai.
Lei si avvicinò in fretta, appoggiò le labbra vicino al mio orecchio e disse:  << Papà mi ha detto che qualcuno ha deciso di fare un cordone umano intorno e a difesa degli ulivi del nonno. È l’unico modo per non far abbattere gli alberi. Che facciamo?>>
<< E secondo te che dovremmo fare? Facciamolo>> risposi.
Poi continuai: << lo dobbiamo fare senza esitare un attimo, senza pensarci troppo. Facciamolo>>

Volevano abbattere tutti gli ulivi del nonno. Dicevano fossero tutti infetti, malati. Da abbattere. Ma a noi tutti personalmente mai nulla era successo mangiando i frutti amarognoli di quegli alberi, mai  nulla ci era successo giocandoci sotto, mai  nulla. Niente di niente.
E allora sarebbero passati sul nostro corpo per commettere quello scempio. Senza dubbio alcuno sarebbero dovuti passare sui nostri corpi per tagliare gli ulivi.
Volevano ammazzare i nostri alberi, i nostri avi, la nostra antica storia di Puglia. Volevano far diventare un posto incantevole fatto di verde e fresco, una distesa di sterpaglia secca. Dove solo il sole caldo avrebbe potuto far capolino ogni tanto. Volevano trasformare il posto in cui i miei occhi felici di bambino si cibavano ogni giorno, in un cimitero di terra rossa. Rossa come il rosso sangue che si era gelato nelle vene di mio nonno. Rossa come le “x” su quei tronchi che profumavano di storia, che trasudavano amore e ricordi.
Non sarebbe successo. No. Non sarebbe successo.

Così facemmo.
Ci schierammo a difesa degli ulivi del nonno che poi in realtà erano di tutti, di una intera comunità. Diventammo un cordone umano intorno alla nostra storia. Un cordone fatto di uomini, donne, bambini. Fatto di giovani e anziani, di amore e di rabbia. Tutti diversi ma tutti uguali. Diventammo un muro difficile da abbattere anche per le istituzioni. Una decina di ragazze che neanche conoscevo, sedute all’entrata della masseria proprio di fronte alle ruspe che avrebbero dovuto abbattere gli ulivi iniziarono lo sciopero della fame e della sete. Ne ricordo benissimo una, molto bella. Non che le altre non lo fossero ma lei aveva qualcosa in più. Era vestita con un pantalone di lino coloratissimo e largo, tipo quelli che usano le donne africane, indossava delle ballerine rosse e una camicia a fiori gialli. E poi, e poi aveva dei capelli bellissimi. Rosso ruggine così  come le lentiggini in volto. La cosa mi colpì perché pensai a quanto può essere buffo il mondo. Come può cambiare il modo di vedere rosso. Nello stesso posto erano presenti due tipi di rosso molto differenti tra loro. Un rosso bellissimo (il suo) e un altro rosso, molto più brutto e cattivo. Il rosso delle “x” segnate sugli ulivi da abbattere. Altri ragazzi  invece, quelli dei centri sociali della provincia, con rami d’ulivo in mano cantavano e inneggiavano in difesa degli alberi. Senza mai fermarsi, mai.
A noi poi, inaspettatamente si unirono politici, sindaci e gente comune da tutta la regione. Tutti uniti per uno scopo comune. La difesa e la sopravvivenza della nostra storia. Perché quegli ulivi non erano semplici ulivi. Erano a tutti gli effetti nostri parenti. Nostri anziani parenti. Parenti che ci avevano abbracciato negli anni e che mai ci avevano tradito. Mai. In nessun modo. In nessun modo. E mai lo avrebbero fatto.
Ci riuscimmo. Sì ci riuscimmo. Tutti, nessuno escluso.
L’abbattimento fu da prima rimandato a data da destinarsi e poi definitivamente cancellato.
Avevamo vinto tutti. Tutti assieme.
Tornai a Torino qualche settimana dopo, ma solo per raccogliere tutte le mie cose, rassegnare le dimissioni in quello squallido e freddo call‐center del nord. Tornai a Torino solo per quello e fu una cosa indolore. Tornai nella mia Puglia più felice di prima.
Felice come quel bambino seduto sul muretto a secco fatto di bellissime pietre pugliesi, ben incastonate tra loro e con il paesaggio intorno, che divideva la masseria del nonno da quella di Zio Giuseppe.
Ero seduto sul mio solito pezzo di muretto a secco che era il mio personalissimo punto di vista sul mondo che avevo d’avanti e mi cibavo dello spettacolo che vedevo. Gli alberi grandi, quelli piccoli. Il grano che ondeggiava felice al vento caldo del sud, i filari d’uva, la gente che lavorava in campagna, due cani che si rincorrevano tranquilli nella terra rossa e profumata. Tutti gli odori e i sapori che ricordavo erano tornati più vivi che mai. Li sentivo forte tutto intorno e addosso. Ne ero felice. Felicissimo.
Vidi tra le pietre una lucertola, chiamai Giovanna che era a pochi passi da me a raccogliere i pomodori: << Giovaaaaà la lucertola. Giovaaaà>> e iniziammo una corsa veloce all’inseguimento di quella lucertola innocente. Come quando eravamo bambini. Come quando eravamo piccoli piccoli in quella grande masseria.
Ero felice, eravamo felici. Ero sazio.
Ero sazio della mia terra che da sempre mi aveva cibato e che sempre lo avrebbe fatto.
Mi chinai e raccolsi un tocco di terra morbida e lo gettai al vento di Puglia. Il mio vento. Nella mia fattoria.