Sciesopoli, quel palazzo dove i bambini ritrovarono la libertà e il sorriso

Selvino, la Sciesopoli, quel palazzo dove i bambini di ogni tempo e di ogni luogo ritrovarono la libertà e il gioco

Lungo le stradine avvolte dal verde e contornate da fiori di campo, proseguendo verso la Valle Brembana, un tragitto si inerpica tra le zone collinari dell’altopiano di Selvino Aviatico.
Silenzio intorno e cinguettio di uccelli, stormir di foglia e sussurrare di brezza. Appare una cancellata aggrovigliata ai vitigni, e lo sguardo si allarga su uno spiazzo aperto aggredito dall’erba selvatica. Imponente e fragile allo stesso tempo, si mostra l’austera facciata dell’edificio che un tempo palpitava di vita e di bambini. Il suo nome evoca un paese dei balocchi, un mondo di giochi e di futuro: “Sciesopoli”.
Prese il nome del patriota milanese del Risorgimento Antonio Sciesa, morto durante le insurrezioni contro gli Austriaci nel 1850 e fu intitolato a due caduti del Regime: Emilio Tonoli e Cesare Melloni, rispettivamente di 22 e 25 anni, appartenenti alla Squadra da combattimento “Antonio Sciesa”, caduti il 4 agosto 1922 durante gli scontri nei pressi della tipografia dell’”Avanti” a Milano.
La sua costruzione fu un desiderio delle autorità milanesi del Partito, con l’attivo interessamento del fratello del Duce Benito Mussolini, nell’ambito delle iniziative legate all’ONMI (Organizzazione Nazionale Maternità Infanzia), per offrire ai giovani Balilla e alle piccole Figlie della Lupa la possibilità di respirare aria salubre e fortificare il corpo, la mente e lo spirito tra le selve. La Sciesopoli era talmente imponente e suggestiva che svettava su tutta la vallata brembana, offrendo un panorama di cime innevate e rigogliosi boschi da mozzare il respiro.
Poi tutto precipitò.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, dall’autunno del 1945 all’autunno del 1948, la “Sciesopoli” divenne la “Colonia Ebraica”, come dicono i documenti “il più importante orfanotrofio in Italia, uno dei maggior in Europa”, e offrì ospitalità, rifugio e ritorno alla vita a circa 800 bambini ebrei orfani sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Le organizzazioni partigiane ed ebraiche, che li avevano raccolti, li portarono lassù, per ritornare alla vita, prima di riprendere il loro viaggio e giungere finalmente in Palestina. Erano bambini perlopiù polacchi, ungheresi, rumeni, che nulla capivano della lingua italiana, ma ai loro occhi il verde dei boschi intorno a Selvino, il bianco della neve sui Monti Podona e Poieto, il giallo dei giorni d’estate all’ombra degli abeti, il rosso delle foglie dei faggi in autunno, divennero i colori della vita, un arcobaleno dopo il nero dei giorni della “Shoah.”
Qui i bambini ripresero a studiare, a creare, costruire piccoli manufatti, ad imparare, al fine di fornire loro ogni possibilità di intraprendere una vita dignitosa e autonoma.
Raccontava la maestra Angela Camozzi: “Erano tutti magrissimi, con le guance scavate e lo sguardo triste. Molti di loro avevano visto i genitori entrare nei forni crematori e nelle camere a gas. Me lo raccontavano in un linguaggio fatto di gesti e di qualche parola in italiano, tra lacrime disperate. Piangevano spesso. Mentre erano impegnati in una partita di calcio o seduti davanti al cinema della colonia, davanti a una comica di Stanlio e Ollio, qualcuno all’improvviso veniva colpito da una crisi di pianto.” Lei, appena diplomata, si recava spesso alla colonia a insegnare un poco di italiano. La gente del paese era commossa da queste vicende e faceva a gara per dare una luce di serenità a quei visetti pallidi e seri. 
Nel 1948 i bambini della Sciesopoli partirono verso la loro nuova patria e la “Colonia Ebraica” rimase muta, vuota, quasi sperduta tra le enormi chiome degli alberi. Ma non aveva ancora concluso il suo compito.
Il Comune di Milano, pur non essendo proprietario dello stabile, prese in consegna la Colonia e la destinò a “Stazione climatica di montagna” per i bambini disagiati e con difficoltà economiche, denominandola “Pio Istituto di Santa Corona” e dandone in gestione alle Suore.
Durante l’anno, ogni 3 mesi, salivano a Selvino ben 4 pullman che, partendo dalla stazione di Milano presso Porta Vigentina, portavano lassù oltre 200 bambini desiderosi di giochi e armonia, soprattutto figli di carcerati o di tossicodipendenti, bambini che avevano subito violenze,  i quali venivano così tolti dalla solitudine e dall’abbandono, rifocillati e curati nel corpo e nell’anima lacerata.
I bimbi frequentavano regolarmente le lezioni scolastiche; infatti era attiva perfino la scuola elementare, che occupava il piano superiore ed era curata dalle maestre nominate dalla locale Direzione Didattica. Ma soprattutto c’erano loro, le “maestrine”, giovani diplomate provenienti da tutta la Lombardia e anche dal Meridione.
Al mattino i bambini seguivano le lezioni ordinarie secondo i Programmi Nazionali, mentre al pomeriggio subentravano le maestre del doposcuola che li seguivano nei compiti e che poi li impegnavano in attività ricreative, giochi, passeggiate fino all’ora di cena, dopodiché si ritiravano nelle camerate.
Per le vacanze natalizie e pasquali la Colonia‐scuola chiudeva e i piccini ritornavano in famiglia. Ricorda Bea che il personale di servizio, tra cui lei stessa, riempiva con cura ognuna delle piccole valigie, molte di esse vecchie e consumate, inserendo i panni ben piegati e puliti, odorosi di bucato e di vento, con amorevole e materna sollecitudine, aggiungendo un fiocco, un nastrino, una mollettina, un piccolo pensiero. Ma purtroppo, spesso, quando a gennaio i bambini rientravano in Colonia, le inservienti scoprivano con amarezza e dispiacere che molte valigie non erano state nemmeno aperte, oppure erano vuote. Una domanda saliva alla mente: che cosa avranno fatto quei bambini, chi si sarà occupato di loro? Che cosa avranno visto ancora che un bimbo non dovrebbe mai vedere?
Il 1979 passò senza eventi, la Colonia venne aperta solo 3 mesi d’estate, ma nel 1980, trasformata in “Opera Pia Per l’Assistenza Climatica”, titolazione che ancora oggi campeggia sulla facciata dell’edificio, divenne punto di accoglienza del Progetto “Scuola Natura” e nei 3 anni successivi ospitò alcune famiglie di  profughi vietnamiti, che avevano lasciato il loro paese per la difficile situazione economica, carenza di cibo e beni di prima necessità, causati dall’autorità del governo comunista.
Tra i tanti che dormirono nelle camerate della colonia anche i pazienti dell’Istituto Marchiondi, un Istituto Minorile per l’educazione di ragazzi difficili, basato non come riformatorio ma “scuola di vita”. Per la stagione 1982 ‐ 1983 giunsero i bimbi emopatici, affetti da anemia mediterranea: spesso accompagnati dal medico personale, soggetti a frequenti trasfusioni, fragilissimi ed estremamente deboli, quei bimbi dai grandi occhi già adulti si estasiavano seduti sotto le chiome dei faggi, nel fresco silenzio dei giardini, tra il chiaroscuro dei giorni d’estate, con il sole a giocare a nascondino con le ombre.
Salirono poi alcuni ragazzi di origine africana e infine, tra il 1984 e fine estate del 1985 la Colonia venne scelta dall’II.PP.A.B di Milano (Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficenza, che svolgono attività socio assistenziali) per soggiorni legati alla terza età.
Ma alla fine giunse  l’inesorabile declino, che portò alla chiusura della “Sciesopoli” alla fine dell’estate del  1985. Da allora cadde il silenzio.
Sono entrata dell’enorme edificio vuoto in una giornata di gennaio limpida e soleggiata. Il tepore del pianoro intorno pareva risucchiato dal gelido respiro degli atri bui, spogli e squallidi. I dormitori non recano più voci di bambini, solo colonne desolate, che come soldatini ancora reggono l’enorme salone. Non ci sono più i lettini ordinatamente in fila, né i banchi di scuola, né piattini, né scodelle, né tavolini, né panchette, nessun gioco, nessuna impronta se non quella del tempo.
La “Sciespoli”, antica dimora di bimbi, oggi piange le sue solitarie lacrime dimenticate, chiede solo di essere ascoltata, chiede solo di ritornare alla luce.