Sessantatré Ore

Sessantatré ore.
Sessantatré ore senza mettere un piede fuori.
Odio il tempo; così linearmente detestabile.
In dodici ore si possono fare molte cose; in ventiquattro il doppio, ma in sessantatré, beh, il triplo.

Si potrebbe dire “aprile, dolce dormire” ma cavolo siamo in inverno ed è possibile che in sessantatré ore, non si riesce a fare niente?
Avevo perso la bussola e non ero molto in me. Steve mi ripeteva che non dovevo demordere, che le cose sarebbe cambiate; piangersi addosso era inutile e che dovevo prendere il mio tempo, organizzarlo, fare, dire, uscire, ecce cc. Che caro amico era quello Steve; anche a distanza sapeva come farmi rinsavire.

Non vedevo nessuno, non sentivo nessuno, l’unica cosa con la quale parlavo sempre erano quelle maledette sigarette che, però, nel loro far male mi tenevano compagnia. Tra le quattro mura della mia stanza informe, pensavo alle vite che conducevano le persone al di fuori di essa; il panettiere, la signora di sotto, gli uccelli, i ragazzi di ritorno da scuola.

Scuola. Che bella parola. Quando ero ragazzo mi piaceva molto andarci. Stare con la gente era la cosa che mi faceva sentire bene, una sensazione di sazietà, interezza, benessere fisico e mentale. Ma forse non ero mai riuscito nell’intento di unire utile e dilettevole; o mi dedicavo all’utile passando il tempo libero nell’inutile o mi dedicavo al dilettevole scadendo, poi, anch’esso nell’inutile.

Eppure c’era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa che era lì, tra le dita delle mie mani irrequiete. Pensieri, parole, immagini, sensazioni e l’unica cosa a cui la mia mente mi riportava era il passato, passato, passato.
Abbastanza estenuante, direi. Eppure il sole era alto nel cielo, avrei potuto fare qualsiasi cosa. Si, ma cosa?

Non era la mia aspirazione restare chiuso tra quattro mura e non uscire per sessantatré ore, ma anche se avessi rotto quello scorrere del tempo, non sarei comunque giunto a qualche soluzione. Eppure sapevo che le risposte erano tra le mie mani, tra un dito ed una sigaretta.

Il caffè, che gran benedizione. Il mattino era troppo bello per passarlo a non viverlo, ma ero troppo rinchiuso in me stesso per far sì che il sole portasse qualcosa di buono. Ero fatto per la notte, per il divertimento, per le illusioni e per l’amore che da un bel po’ non mi faceva visita.

Del resto, ho sempre fatto così. Nei momenti di inadeguatezza, l’unica cose che mettevo a proprio agio, era il mio corpo e non di certo la mia anima.
Sessantatré ore; eppure questa parola mi intrappolava e il ticchettio dell’orologio che scandiva ogni secondo, Dio cristiano, era l’apoteosi filmica che faceva vacillare la mia mente.
Siamo giunti quasi a sessantaquattro.

Che Dio mi perdoni per tutto questo tempo sprecato a sprecarlo ma se solo mi volesse un po’ più di bene, se realmente vedesse me come uno dei suoi legittimi figli, allora mi darebbe una mano. Una qualsiasi. Magari potrebbe iniziare col darmi l’ispirazione giusta per affrontare diversamente ogni mattino quando, per il troppo sonno, i miei occhi si aprono con un solo pensiero nella mente “sessantatrè ore”; se magari mi facesse svegliare con un pensiero diverso, sarebbe già un inizio. E forse se già mi svegliassi con la frase “sono vivo anche oggi”, forse non sprecherei tutto il tempo a pensare a quante ore sono rinchiuso in casa circondato dalla mia solitudine.

Oh, Steve! Non sai quanto piacere mi hanno fatto le tue parole; del resto tra amici ci si comprende e ci si rafforza. Spero tu abbia tutte le fortune, più di quelle che hai già e non mi dispiace pensare che, a differenza tua, io sia dannato nell’inferno senza nessuna fortuna alcuna. I disgraziati muoiono soli, non te l’hanno mai detto?
Se mai verrai a farmi visita, ricordami di non sporcarti troppo con il fluido fetido della mia pazza filosofia.

Sessantatrè ore e mezzo dì appena passato.