Stories from Palestine - Separati gli uni dagli altri e dal mondo

 La storia che seguirà è stata scritta lo scorso autunno da una studentessa in lingue di Gaza (una "gazan" o gazawi, come vengono abitualmente chiamati gli abitanti della città palestinese altrove ‐ capita all'estero ma anche nel resto della Cisgiordania ‐ per distinguerli e differenziarli dagli altri: non so, tuttavia, se questo sia un pregio o piuttosto mera sfortuna!), oggi ventiduenne, come egli stessa scrive, ed in attesa di una borsa di studio che finanzi un suo eventuale master all'estero: Baraah Qandeel, il suo nome completo. E' storia vera e commovente ‐ a mio avviso ‐ ma no strappalacrime (le lacrime è meglio lasciarle altrove, magari consumandole leggendo di altre morti di palestinesi ed altre uccisioni a Gaza o nei territori occupati in futuro, piuttosto che sprecarle vanamente questa volta); al tempo stesso, però, contiene una disamina alquanto lucida e precisa ancorché realistica (o realisticamente vera) della vita degli abitanti di Gaza, a cui non è permesso neanche sognare, sovente, vista la precarietà del loro trend quotidiano e di tutta la loro esistenza. Molti anni orsono mi capitò di leggere una frase che descriveva appieno la situazione: "da queste parti sembra che la maggior parte della gente pratichi il pessimismo della ragione frammisto all'ottimismo della buona volontà!". Non è paradossale, tutto ciò, né tanto meno trattasi di semplice eufemismo o peggio ancora di retorica filo‐palestinese da quattro soldi, bensì è dato di fatto assolutamente incontrovertibile. Ma la volontà non basta, evidentemente, e i gazan sopravvivono (o vanno avanti, dignitosamente e nel miglior modo possibile che li sia concesso) facendo a meno, spesso, di quella che molti in occidente (per lo meno in quella parte di esso di stampo fantomaticamente capitalistico ed iper opulento) chiamerebbero "progettualità a lungo termine": non possono farlo perché qualcun altro decide per loro (i loro destini e il loro futuro) e va impedendoglielo (a prescindere dalla volontà stessa, appunto), mettendo ‐ come suol dirsi ‐ "bastoni in mezzo alle ruote" della loro esistenza, ovvero frapponendo tra essi ed i loro eventuali progetti di vita (o i sogni possibili che ne scaturirebbero) ogni ostacolo che possa umanamente immaginarsi, il quale diviene (quasi) sempre insormontabile, purtroppo: lo sarebbe, invero, per chiunque dovesse risiedere a Gaza e dintorni o in ogni altro angolo di quella terra martoriata che si chiama Palestina. Di certo è che ognuno viva, a questo mondo, in una perenne condizione di precarietà, la quale pende come fardello irrinunciabile a prescindere dalla opulenza e dal sistema economico vigente; tutti, poi, potremmo definirci, sia di nome quanto di fatto, dei "precari instabili" (o senza presa d'appoggio alcuna, magari), in fondo, a prescindere dall'essere o meno occupati (in senso lavorativo, è da intendersi) e dalla condizione sociale che va contraddistinguendoci e la quale pur differisce da un individuo ad un'altro: Jean‐Paul Sartre affermava, infatti, che "l'uomo pur possedendo la facoltà del libero arbitrio (ossia, quella determinata capacità che ci contraddistingue dagli altri esseri viventi, per il fatto di poter pensare e saper di conseguenza agire in tutta libertà, quando sia possibile) opera delle scelte che inevitabilmente porteranno sempre a nulla". Si tratta di esistenzialismo razionale (o pessimismo della ragione, come scritto), più che di cinica visione della realtà il quale tuttavia, per gli abitanti di Gaza e dintorni (ma questo è estendibile, invero, ad ogni palestinese che vive l'occupazione israeliana) è amplificato alla milionesima potenza in ogni cosa. "Viaggiare è sempre stato un lusso per la mia generazione, una fantasia che possiamo solo immaginare e sognare. Beh, dimenticati di viaggiare. Anche visitare altre regioni del nostro paese è difficile da morire. Se vuoi che ti faccia un esempio, allora lascia che ti dica che siamo costretti a comunicare con la nostra stessa gente solo attraverso schermi digitali, nessun contatto visivo reale, nessun incontro reale, solo virtuale. La sofferenza non finisce qui. A peggiorare le cose, non solo le persone a Gaza City sono paralizzate e gli è vietato muoversi nella propria città, ma più palestinesi fuori dalla Palestina sono bloccati all'esterno, (np. nel 2018‐2019 ci fu la cosiddettà "marcia del ritorno", una manifestazione di protesta a favore dei palestinesi profughi o transfughi all'estero, e del loro diritto al ritorno, appunto, la quale provocò ben oltre duecento morti e migliaia di feriti) e anche solo fare una visita alle loro famiglie è un rischio in sé e per sé. E'come una maledizione che ti accompagna dalla nascita; quando sei palestinese, la sofferenza diventa uno stile di vita per te, ed è doppiamente dannosa se sei di Gaza. Quando ero piccola, ho sempre avuto familiarità con l'idea che noi abitanti di Gaza avessimo un aeroporto nella città di Rafah (la città che confina con l'Egitto). Poi un giorno, le forze "isareliane" decisero che non avevamo più bisogno di avere un aeroporto tutto nostro e che dovevamo restare nella grande prigione che avevano creato per noi, così hanno semplicemente bombardato l'intero posto e l'hanno distrutto a pezzi. Stavano chiaramente dichiarando: "Se non possiamo occupare Gaza e aggiungere un altro pezzo di terra alla nostra collezione, allora dovremmo trasformare questo piccolo, minuscolo posto in una gabbia con migliaia di prigionieri e privarli del loro diritto di scegliere il loro proprio destino". Ho una zia che vive in Egitto con suo marito e i loro figli, e ricordo a malapena che aspetto ha. Certo, era prevedibile perché l'ultima volta che l'ho vista è stato quando avevo dieci anni e ora ne ho ventidue! E'stato ancora più tragico quando mia nonna è morta dove viveva, a Khan Younis, nel sud di Gaza. Mia zia non poteva nemmeno dire addio alla madre che le era sempre mancata o guardare il suo bel viso per l'ultima volta. Ha rischiato la vita per viaggiare illegalmente dall'Egitto a Gaza, ma non è potuta venire prima del terzo giorno del funerale (i funerali isalmici durano tre giorni), e non ha nemmeno avuto abbastanza tempo da passare con le sue sorelle (lei è la più anziana) perché, essendo la sua presenza illegale, doveva tornare in Egitto appena possibile. Ho sentito molte storie da persone che conosco, e su persone che non conosco, che sono state trattate male e in modo disumano al confine di Rafah mentre si dirigevano verso a da Gaza. Normalmente, il viaggio impiega quattro o più giorni per raggiungere una delle due destinazioni, ma se paghi denaro extra ‐ che è abbastanza difficile da ottenere ‐ puoi ottenere il trattamento VIP per raggiungere la tua destinazione in un giorno e mezzo. Ascoltare storie del genere mi fa solo inorridire all'idea che un giorno sarò nella stessa posizione. Sto cercando una borsa di studio interamente finanziata per ottenere il mio master all'estero in socio‐linguistica, e per lasciare Gaza potrei dover viaggiare da Rafah in Egitto. Sarà abbastanza impegnativo non rimanere uccisi in un incidente sulla strada, poiché la strada per Arish, una città nel nord della penisola egiziana del Sinai, non è altro che una strada nel deserto. Mi chiedo se, una volta fuori, penserei di tornare a visitare il mio paese, dove sono la mia famiglia e i miei amici, e rivivere l'intera esperienza da capo? Posso sembrare sarcastica qui ‐ e non sono sicura che sia il modo più sano per esprimere i miei pensieri, ma forse il sarcasmo mi aiuta ad assorbire questi fatti dolorosi ‐ che come abitanti di Gaza, non siamo in grado di viaggiare e muoverci liberamente come persone di molte altre nazionalità possono. Quanto al futuro, non ho né conoscenza né speranza. E'un'avventura rischiosa che dobbiamo affrontare: raggiungere la perdita minima mentre ci costa un braccio e una gamba cercare una vita dignitosa e normale da vivere". Nel maggio scorso scrissi: "Chi va costruendo muri attorno ad un altro stato o territorio che sia (come nel caso di Israele, appunto) eppoi, alla resa dei conti (o de facto, come asseriscono i luminari del diritto romano, di quello internazionale e non solo) vi tiene prigioniero e segregato un popolo tutto intero, al suo interno (nel caso di Gaza e della Striscia questo accade a causa di un embargo ma si tratta della stessissima cosa, in fondo), senza curarsene né distinzione alcuna fare per chi ci vive (siano essi donne, uomini, bambini, giovani o vecchi), il dovere sacrosanto ha di tenere a bada quello stesso popolo, custodire cioé quel muro (o quei muri) che ha eretto e merita (paradossalmente) di ergersi a suo fedele guardiano: Israele a guardia di sé stesso, si potrebbe dire; di quel mostro che egli stesso ha partorito, in una sorta di espiazione catartica con quella sua creatura mostruosa". L'operazione militare israeliana che nella scorsa primavera ha devastato Gaza, provocando ‐ in massima parte e come al solito ‐ vittime civili inermi ed incolpevoli, fu denominata "guardiano del muro": è proprio quel muro, in fondo, che più di ogni altra cosa tiene separati i gazan e tutti i palestinesi tra loro e dal resto dell'umanità.