Tempo da lupi
Avrò dormito un paio d’ore, forse meno. La notte era rimasta immobile fino a quando uno scroscio improvviso non aveva squarciato il silenzio, come un grido venuto dal cielo. In un attimo, la pioggia si era trasformata in un assalto furioso, e la casa aveva iniziato a tremare sotto i colpi sferzanti del vento.
Mi alzai dal letto trascinando con me la stanchezza, e rimasi qualche istante alla finestra. Le gocce rimbalzavano sul vetro come miriadi di piccoli proiettili luminosi, e tra un lampo e l’altro il giardino appariva e scompariva, inghiottito dalla notte. Ogni tuono era un passo pesante, un gigante invisibile che attraversava il cielo.
In quell’oscurità sondai ricordi lontani: le estati in montagna, le notti in cui il nonno diceva che il mondo, quando voleva farsi ascoltare, parlava con il linguaggio delle tempeste. «È tempo da lupi», sussurrava, e allora io stringevo le spalle, temendo che davvero dalle ombre potessero emergere creature antiche.
Ora, davanti a quel tumulto, compresi cosa intendesse. Non era la paura a farmi vibrare, ma una strana forma di rispetto. Il mondo, per un istante, stava ricordando a tutti noi la sua voce primordiale.
Quando la pioggia cominciò a placarsi e il vento smise di graffiare i muri, tornai a letto. Il silenzio che seguì fu così profondo da sembrare irreale, quasi un regalo dopo il fragore. Chiusi gli occhi, sapendo che, all’alba, nessuno avrebbe creduto alla furia di quelle ore. Ma io sì. Io avevo ascoltato i lupi del cielo.