The last breakfast

Quella domenica non c’erano buone intenzioni nell’aria.
Quella domenica sarebbe stato un apice, me lo sentivo.
Più che una domenica, era una goccia che fa traboccare il vaso.
Io ero il fottuto vaso, e il traboccante contenuto sarebbe stato solo un intruglio di sangue e materia grigia.

La pistola era pronta già da diverso tempo: riposta in ordine in un cassetto, era come un soldato che nell’ombra aspetta che la guerra si scateni.
Al momento giusto, il mio dito avrebbe reso quell’insieme meccanico di freddi ingranaggi ciò che era: non un orologio, non un tostapane, ma un’arma da fuoco.
In quella domenica mattina di metà ottobre, l’avrei toccata, maneggiata e utilizzata su me stesso.
Avrei fatto tutto con la massima calma e tranquillità.
La stessa tranquillità che mi trasmettevano i caldi raggi del sole che filtravano dalle tapparelle socchiuse, nel silenzio totale della mia camera da letto.
Non c’era tensione in me, ero fuori da me stesso.
Era come se la mia anima avesse abbandonato il mio corpo, come se l’ultimo brandello di essa si fosse definitivamente separata da me la notte scorsa; come se con uno strattone deciso si fosse staccata dall’ultimo pezzo di me che ancora la tratteneva.
Ora mi vedevo da fuori: come in un’inquadratura oggettiva, una ripresa neutrale fatta in terza persona.
E non sentivo niente.

Mi alzai dal letto, mi preparai di tutto punto, e mi recai nel mio bar preferito, un posto di classe dove da più di dieci anni consumavo la mia lunga e rilassante colazione della domenica.
Il mio rito domenicale al quale non avevo mai rinunciato.
Appena arrivato mi diressi verso il mio solito tavolo.
Si trattava di un tavolo circolare in mogano, ricoperto da una tovaglia immacolata al cui centro si trovava un vaso con un fiore di calla.
Banale ma rassicurante.
Ordinai al cameriere la mia ultima colazione: niente di particolarmente ricercato o pretenzioso, ma il mio solito latte macchiato ben caldo, pane croccante, marmellata di albicocche con burro a parte.
Nessun extra. Nessuna pretesa, solo un’ultima colazione che si rispetti.

Dopo il rilassante rituale di un’ora e mezza, con lettura di quotidiani vari, ero pronto.
Con la mano, andai cercando la pistola nella tasca interna del giaccone, come per avere la conferma definitiva di ciò che stavo per fare.
Non c’era.
Per la prima volta da mesi, forse anni, sentii il battito del mio cuore accelerare senza controllo.
Cercai di calmarmi e con l’altra mano tastai l’altra tasca interna del giaccone.
La pistola non c’era.
Era rimasta in quel cassetto buio del mio soggiorno, aveva appena mancato la grande occasione che dava un senso alla sua creazione.
Iniziò il panico, la tachicardia, la sudorazione.
Per la prima volta dopo anni, sentivo le viscere contorcersi, il cuore battere forte, l’adrenalina salire al cervello.
Ero vivo.
Ero vivo, e dovevo trovare un modo per essere morto il prima possibile, senza poter usare la pistola.
Preso dal panico, raccolsi la prima cosa che poteva ricondurre al concetto di arma.
Corsi in bagno impugnando il coltellino del burro.
Chiuso il chiavistello, ero solo e non potevo più aspettare.
Col sudore che m’irritava gli occhi, alzai la manica della camicia e mi osservai il polso destro, cercando di capire dove si trovava la vena da incidere.
Le luci soffuse mi confondevano, così strinsi forte il coltello e premetti con tutte le mie forze.
Non mi è mai piaciuto il sangue, e di sicuro allagare un bagno pubblico col mio plasma non rientrava nei miei piani.
Ad ogni modo, il problema non si pose: il coltellino non graffiò nemmeno leggermente la tenera pelle del mio interno polso, di conseguenza l’idea del soffocamento si fece sempre più vicina.
Il rubinetto del lavandino funzionava a fotocellule, quindi mi piegai in modo che la mia testa potesse tenerlo attivo; e chiuso lo scarico, aspettai.
Mio malgrado si trattava di un lavandino dal design ultra‐moderno, di forma rettangolare, con le sponde molto basse, le quali rendevano impossibile l’immersione totale di naso e bocca.
L’alternativa di annegamento coinvolgeva il gabinetto.
C’era un limite a tutto.

Mi alzai e vidi riflessa nello specchio, l’immagine di un uomo non più tanto giovane con le sopracciglia e la punta del naso bagnati, che aveva reso il proprio suicidio una patetica pantomima.
E che, fatto ancor peggiore, si era di nuovo sentito vivo solamente rincorrendo la morte.

Mi asciugai le sopracciglia, e uscii dal bar con un sorriso stampato in faccia e il cuore che batteva forte.
Era domenica mattina, il sole mi scaldava il corpo e non avevo nessuna voglia di tornare a casa.

FINE

Sandra Tricca 26/09/2011