Tra la realtà e il sogno

Era già da un po’, ma non avrebbe saputo dire quanto, che camminava a piedi, lungo la statale 429.
Portava quei buffi  jeans a righe verticali celesti e bianche, che la facevano sembrare evasa allora di prigione.
Erano gli anni quaranta e quasi tutti si muovevano a piedi o a cavallo; i più fortunati o ricchi col calesse.
Era bello spostarsi lungo quella strada; aveva già fatto tanti incontri e, anche se non tutti piacevoli, ognuna delle persone che avevano incrociato la sua via, le avevano in ogni caso lasciato qualcosa.
Si soffermò davanti all’ ingresso di una fabbrica di mobili ed entrò; conosceva tutti lì.
Come sempre Massimo e Luciano la accolsero a braccia aperte e le dissero che c’era un’assemblea in corso,
ma che se voleva entrare, sarebbe stata la benvenuta.
Così fece, ma per ascoltare la relazione del sindacalista, si infilò dentro ad un cubo a cui era stata tolta la facciata superiore e vi si mise a sedere, con le gambe incrociate e la testa che usciva dall’ apertura.
Non stava comoda lì dentro, ma vi rimase fino alla fine, uscendone un po’ indolenzita.
Massimo la pregò di restare, ma lei disse che non era più tempo e che doveva andare ancora oltre.
Salutò tutti e si rimise in cammino verso Certaldo.
Era una giornata decisamente limpida: il sole filtrava attraverso le fronde degli alberi, che costeggiavano tutta la strada e la temperatura era alta, ma mitigata dall’ombra che tutti quei grandi pini proiettavano a terra lungo il cammino.
Ad un tratto scorse qualcosa in lontananza; cercò di osservare meglio, socchiudendo gli occhi e concentrando il suo sguardo su quella che sembrava essere una massa informe, che occupava quasi tutta la carreggiata destra della strada.
Man mano che si avvicinava, sempre più incuriosita, le figure informi iniziarono a delinearsi sempre meglio:erano cani?
No, non soltanto .
C’erano quattro leoni, ma di un colore stranissimo, identico a quello di altrettanti grossi cani bovari, che stavano comodamente sdraiati, l’uno accanto all’ altro, quasi in formazione: sembrava che un immaginario domatore li avesse fatti mettere in posa per un altrettanto immaginario pubblico, pronto ad applaudire per la bellezza che tale spettacolo emanava.
Il colore dei loro mantelli era variegato: predominanza di nero, intercalato da pendici di rosso, con il torace di un bianco così candido, da dare quasi fastidio agli occhi.
I cani erano sicuramente dei bovari svizzeri, bellissima e maestosa razza, dal carattere che sprigiona una dignità ed una fierezza di sé senza eguali e, stranamente, anche il mantello dei leoni era fatto così.
Mai visti dei felini di quel colore…
I cani scodinzolavano, i leoni invece ruggivano minacciosi, ma nessuno degli otto quadrupedi si spostò dalla propria posizione e, cosa ancora più strana e inaspettata, intorno a loro c’era una quantità indefinibile di altri cani e gatti, di età, taglia,colori e razze diverse che rumoreggiando, gironzolavano attorno agli otto maestosi guardiani, sicuri di sé e del fatto che nessuno avrebbe mai osato toccarli, protetti com’ erano dai loro giganteschi compagni.
Alle spalle di tale massa di mammiferi, maschi e femmine, cuccioli e adulti, c’era una piccola casupola, quasi una capanna; dall’aspetto si intuiva che chi la abitava non versasse in felici condizioni; tutto però fuori era pulito ed ordinato.
Continuando a camminare, gettando un occhio verso i quattro giganteschi felini policromi, che pur ringhiando minacciosamente, non accennavano ad assalirla, vide uscire sulla soglia della casupola un ometto basso,
con una coppola siciliana in testa, dallo sguardo sorridente e dai capelli biondissimi, nonostante l’avanzata età.
I due umani si scambiarono solo un veloce sguardo, accompagnato da un vago accenno di saluto e la giovane continuò il suo cammino.
La scena cambia: lei si ritrova a percorrere la stessa strada, ma questa volta in senso contrario, come se stesse tornando indietro sui suoi passi.
Arrivata all’ altezza della casupola, davanti alla quale aveva visto tutti quegli animali, si accorse che questa volta tutto intorno non c’era più nulla; solo lei, la strada, gli alberi, la casa, ma degli animali e dell’ uomo nemmeno l’ombra.
Così si decise e aprì la porta della cascina;  si ritrovò così a camminare su quello che in breve capì essere il soppalco di un grande granaio, situato sotto il livello della strada.
Dalla sua posizione poteva vedere il piano inferiore, dove, sdraiati in ordine sparso c’erano tutti gli animali che all’andata, aveva visto all’ esterno.
Che strano pensò: dormono tutti !
Così iniziò, senza sapere nemmeno perché, a fischiettare una marcetta, quella stessa marcetta che i soldati nordisti suonavano ai tempi della guerra di secessione e che ricordava di aver sentito anche in un vecchio film con Dustin Hoffmann.
Al suono di quella marcetta, tutti gli animali si svegliarono e iniziarono ad accalcarsi attorno a lei, tutti festanti, anche i quattro grossi leoni, che invece prima le avevano ringhiato, mostrandole le poderose zanne con fare minaccioso.
Guardando più attentamente tutte quelle bestie allegre e felici, si accorse che ognuna di loro aveva con sé un piccolo quaderno; su ognuno di quei quaderni c’era scritto il nome dell’ animale che lo portava legato al collo; incuriosita lasciò che uno dei cani di taglia più piccola le si avvicinasse più degli altri , aprì il quaderno e lesse il nome: Agata.
Si capiva che quel quaderno, prima di lei, era appartenuto anche ad altri cani, forse ormai morti, perché sulle pagine precedenti a quella dove si leggeva il nome Agata, c’erano scritti altri nomi.
Improvvisamente lo sguardo di quella piccola bestiola cambiò e diventò incomprensibilmente triste e malinconico, e la ragazza piangendo, iniziò ad accarezzarle la testa.
E più la accarezzava e più lo sguardo della cagnetta diventava triste e la giovane ebbe quasi la sensazione di sentire che le diceva: non ti preoccupare, devo andare, ma andrà tutto bene; stai tranquilla, non piangere, perchè andrà tutto bene…
“Hai capito tesoro? Non ti preoccupare, in due ce la faremo a passare anche questo brutto momento…”.
Mi sveglio e mi rendo conto che stavo sognando e che, mentre sognavo, piangevo e il mio compagno che se n’era accorto, mi stava dicendo quelle parole, che nel sogno a me pareva venissero da Agata.
Ricordo solo che appena sveglia sono riuscita solo a continuare a piangere a dirotto, finché mi sono calmata e sono riuscita a riaddormentarmi, cullata dalla voce rassicurante di Luca..
Interpretazione tutta mia del sogno, che credo si avvicini molto a quella reale:
la strada è il mio percorso di vita, costellato di presenze di amici (i cani scodinzolanti) e da persone che credo mie amiche, ma che in realtà mi usano a loro piacimento, usando una doppia faccia ( i leoni che prima ringhiano e poi mi fanno le feste, mescolati tra gli amici veri che invece non smettono mai di scodinzolare) e dai quali infatti mi allontano, ma tenendoli sempre d’occhio.
Agata, la piccola cagnetta prima festante e poi triste, è il bambino che portavo in grembo e che ho perso, ma che nonostante questo cerca di rassicurarmi.
La ragazza che percorre la strada e che alla fine piange,naturalmente sono io, distrutta dal dolore di perdere il mio bambino, che nel sogno assume le sembianze del cane, perché il cane è l’essere più fedele in assoluto all’ uomo e a lui più vicino; Agata però sa che deve andare e che non potrà stare accanto a me, come il mio piccolo tesoro è dovuto salire in cielo, prima ancora di nascere.
Gli anacronismi evidenti sono dati dal fatto stesso che sia un sogno, come i jeans, che ho avuto davvero quando facevo il liceo; la storia ambientata negli anni quaranta, anni che per ovvie ragioni anagrafiche non posso conoscere, essendo nata nel ’67; infine  la marcetta che fischio, che fa da contorno al film “Il piccolo grande uomo” e che se fossi stata davvero negli anni quaranta non avrei potuto fischiare, in quanto il film risale a una quarantina circa di anni dopo, mentre la guerra di secessione americana al secolo precedente.
Le uniche cose reali, cioè ribaltabili nella mia realtà attuale, sono la fabbrica, nella quale ho lavorato davvero, insieme a Massimo e Luciano e la statale 429, che esiste davvero ed è quella che collega Poggibonsi a Empoli ed è una via che conosco bene, perché nella realtà mi capita di percorrerla spesso con la macchina, in occasione di brevi gite domenicali e che è realmente fiancheggiata da una quantità enorme di pini marittimi lungo tutto il suo percorso.
All’omino e alla casupola non sono riuscita a dare una chiara collocazione, ma credo che fossero solo un contorno del paesaggio..