Un appuntamento

Me ne stavo lì a guardare più verso la splendida chiesa della Gran Madre che in direzione di quella specie di segretaria che mi sedeva accanto, non bella non brutta, e sì per la verità mi sentivo un po' in colpa, perché forse lei si sarebbe aspettata qualche attenzione in più da parte mia, ma il senso di colpa scivolava via in fretta, come le gocce frizzanti di bitter analcolico che mi scendevano giù per la gola.
"E tu, invece, che fai nella vita?" le chiesi voltandomi verso di lei, giusto per dire qualcosa, giusto per far passare in fretta quell'ora o due che sarei ormai stato costretto a trascorrere in sua compagnia.
"Lavoro nell'ambito delle relazioni umane all'interno di un'azienda che si occupa di produrre dispositivmvmvm... mvmvmvmvmvm..." le ultime parole si erano già tramutate in una sorta d'incomprensibile mormorio nelle mie orecchie, perché senza volerlo mi ero voltato di nuovo ad ammirare la chiesa, lo spettacolo della collina che sembrava sorgere dalle acque del Po, mentre branchi di sedicenni in minigonna andavano su e giù per la piazza ridendo e starnazzando tra loro, scambiandosi gli smartphones per mostrarsi a vicenda le ultime conquiste virtuali, i messaggi sgrammaticati appena ricevuti dallo sbarbato di turno.
"Ah, bello! Interessante!" risposi tornando a guardarla, mentre lei sorrideva tutta soddisfatta del suo lavoro invidiabile, guardandomi come per dire "hai visto che donna capace sono? Hai visto che mi sono ritagliata un bel posto nel mondo?"
Io avrei avuto solo voglia di ordinare un Martini Hemingway, ma non volevo fare la figura del cafone alcolista, o almeno non volevo farla subito, anche perché erano appena le tre del pomeriggio, un pomeriggio di agosto caldo e afoso di quelli che ti fanno venir voglia soltanto di stare stravaccato in mutande sul letto a pensare al nulla.
Mi ero lasciato convincere da Jennifer, la mia amica italoamericana, ad accettare l'appuntamento con quella donna che mi era sembrata fin da subito banale e noiosa, "magari ha delle virtù nascoste", aveva detto Jennifer.
Non che mi dispiacesse fino in fondo, sembrava una donna a modo, e quel paio di gambe depilate che terminavano la loro corsa dentro due scarpe sportive in tela e gomma non erano niente male, malgrado molti uomini abbiano da ridire sull'effettiva femminilità delle scarpe da ginnastica.
Forse avrei pure potuto amarla, una donna così. Una che ogni giorno va in ufficio allo stesso orario, poi torna a casa e s'infila in bagno per fare la doccia e depilarsi, lasciando il rasoio sul bordo del lavandino accanto ai barattoli di crema scoperchiati e andando poi in giro per due ore con un asciugamano in testa, mentre ti dice di preparare la tavola e scongelare il pane per la cena.
Perché la vita è tutta qui, sapete? Quello per cui la gente tutti i giorni si sbatte e si consuma, quello per cui si studia per anni, l'ambìto traguardo, la meta, il Sacro Graal, tutto sta nel poter dire al prossimo che finalmente si è riusciti a realizzare il sogno di mettere su un'allegra famigliola grazie al posto di lavoro nell'ambito delle relazioni umane all'interno di un'azienda che produce dispositivi del cazzo, che serviranno ad un'altra azienda per produrre altri dispositivi del cazzo, i quali serviranno per risparmiare tempo e denaro nel processo di produzione dei primi. Un cane che si morde la coda. L'umanità è un cane che si morde la coda.
La guardai di nuovo, il sorriso stampato era lo stesso di un attimo prima.
"Sai che ho sempre desiderato una donna come te?" le dissi ipocritamente, guardando le rughe che cominciavano a farsi strada, un solco dopo l'altro, sotto l'attaccatura dei capelli.
Lei fece una smorfia strana, forse di stupore, forse soltanto di circostanza, che la rese un po' più brutta.
Finimmo i drinks analcolici, ci alzammo, lei si fece vicina, continuammo a passeggiare parlando del suo entusiasmante lavoro e delle interessanti prospettive per il futuro che esso offriva.
Poi finalmente il tempo a sua disposizione finì e mi salutò per tornare ai suoi impegni.
La guardai salire in macchina e sfrecciare via.

Sul tavolino del bar c'erano ancora i due bicchieri vuoti, con gli spicchi di limone che galleggiavano nell'acqua dolciastra formatasi in seguito allo scioglimento del ghiaccio tra le ultime gocce di bitter.
Mi sedetti, feci un cenno al cameriere. "Un Martini Hemingway" dissi tirando fuori il pacchetto di sigarette che fino a quel momento avevo tenuto ben nascosto in tasca.