Un'orafa

Ora che lo vedo lì, per la prima volta da chissà quanto tempo, non piangere mi sembra davvero mio figlio. Mi sembra addirittura che possa sorridere, che possa, una prima e unica volta, farmi capire che mi vuole bene.
Sono un’orafa, o sono stata per meglio dire, visto che un piccolo contrattempo, uno spiacevole imprevisto durante il parto, ha costretto i medici ad uno sforzo sulla mia schiena che mi ha danneggiato qualcosa alle mani: ora che non hanno sensibilità alle dita non possono più maneggiare gli strumenti sottili e precisi, quegli uncinetti preziosi che usavo per creare i gioielli. Mi dicevano che ero brava, con quei complimenti che non ti fanno alzare la magra paga di un’artigiana in nero ma che almeno ti fanno sperare che tu valga qualcosa. E questo è stato in fondo sempre il mio desiderio, trovare qualcuno che mi desse speranza e conforto, che credesse in me. Ma al mondo di oggi anche vendendosi completamente non si riesce a comprare questo bene, più stabile dell’amore, prezioso più dell’oro che sapevo modellare a mio piacimento. Così quando un giovane disinvolto, simpatico e allegro, ha cominciato a giocare con me, non c’è voluto molto perché mi dessi a lui, perché cercassi in quella leggerezza un sollievo al peso della mia vita. Ci sposammo e forte del suo affetto per la prima volta guardai con fiducia alla mia vita futura: me lo aspettavo piena di luce e viaggi, a vivere quella bellezza che costringevo in minuscoli gioielli in bui e blindati scantinati.
Ma presto capii che ero uscita da una casa come figlia e sorella per entrare in una altra come moglie e cameriera. Le giornate venivano bruciate dal lavoro e dalle montagne di panni e polvere da tirare via. Per non perdere la fiducia di mio marito lucidavo la casa a prova di suocera, stiravo l’impossibile e non chiudevo occhio se tutto non era a posto. Ma la mattina dopo ogni suo movimento mandava all’aria tutto: come un bambino doveva essere accudito in tutto. La sua allegria si rivelò essere noncuranza completa di tutto quello che una vita normale richiedeva e che ricadeva su di me schiacciandomi. Piano piano la mia casa divenne l’altra prigione, quella in cui non avevo nemmeno il vanto dei gioielli ma solo la rincorsa al necessario. Quando gliene parlavo, lui mi diceva che tutto era abitudine, che lui non aveva bisogno di tanto ordine. Ma poi metteva all’aria tutti i cassetti fino a quando non trovava una camicia stirata per bene, fino a che non mi chiedeva, con malcelata delusione, se per caso non volessi farmi dare una mano da sua madre. Ma io volevo credere in me stessa, volevo che credesse in me e divenni schiava della sua e della mia delusione.
Non ricordo molto di quegli anni ma so che tanti li hanno contati come troppi. Le frecciatine velate nei miei confronti erano dei colpi di clava su mio marito che cominciò a sentire una crepa nella sua allegria, una crepa che solo un nipote per sua madre poteva colmare.
Fu forse allora che dissi per la prima volta no. Fu allora ben chiaro a me che quella nostra unione era un fallimento che non poteva gestire un figlio. Mi opposi e litigammo ma il mio mondo era troppo buio per non bramare almeno quel po’ di luce della sua allegria. Sperai che, passati un po’ di anni, non fosse così facile restare incinta, sperai che in fondo tanti che lo desideravano non ci riuscivano.
Dopo pochi mesi la mia pancia cresceva solo meno della mia ansia. Non riuscivo a fare più niente mentre già a lavoro altre ragazzette pregustavano la mia partenza per fregarsi i lavori migliori, quelli che, con sudore, io avevo conquistato. In quel periodo la mia unica consolazione era la gioia di mio marito. Come lo scolaro che avesse finito il compito difficile che gli avevano assegnato incassava con gioia i complimenti di tutti. Licenziava le mie paure con la tipica frase che tutti ci sono passati e che i figli crescono anche da soli. Quando fui costretta a letto provò anche ad accudirmi con affetto e premura ma dopo due giorni chiese aiuto alla madre che, constatata la precarietà della situazione, prese possesso della casa.
Io non credo che mia suocera sia una cattiva donna: è solo una che ci sapeva fare molto più di me e, in un modo o nell’altro, se ne beava. La casa raggiunse uno splendore mai visto e mio marito non faceva altro che lodare i poteri dell’esperienza e dell’istinto di chi diventava mamma. Ma io quell’istinto non lo sentivo quando la pancia entrava in subbuglio, quando i calci mi svegliavano di notte e mi facevano saltare di giorno. Mia suocera mi preannunciò che avrei avuto un maschio bello vivace e non si risparmiò nel raccontarmi tutti i guai che lei aveva passato con mio marito. Quando la vedevo così robusta e pratica non potevo non pensare che questo bimbo mi avrebbe spezzata e spazzata via come un fuscello.
Il parto fu tremendo: naturale doveva essere per l’amor di Dio, perché tutti in famiglia si erano fieramente opposti ad un cesareo. Ma cesareo fu, dopo troppe ore di travaglio, a squarciarmi per sempre l’anima.
Ricordo ancora di aver visto quel fagottino in ospedale, bello e sereno, e di aver pregustato la fine dei tremendi dolori del cesareo quando me lo sarei potuto abbracciare nel letto. Ma quando andammo a casa quell’angelo mostrò tutta la sua violenza e l’odio nei confronti della madre. Le prime due notti furono insonni per tutti e alla terza mia suocera si ritirò a casa sua per non intromettersi troppo nella nuova famiglia; dopo la prima settimana anche mio marito cominciò quella lunga via che dal divano lo portò alle tante trasferte di lavoro.
Il fatto è che piangeva sempre: provava a mangiare, si attaccava alle mie povere mammelle senza latte, e poi mostrava tutta la sua delusione con un pianto acuto e interminabile, rotto solo dalle sue terrificanti apnee.
Il pediatra ci cambiò più volte il latte e solo uno specialissimo ci permise di fermare il suo calo. Un latte buono ma che gli faceva male al pancino dando vita alle famose coliche.
I primi giorni furono tanti a venirmi a trovare. Riempivano gli spazi in cui dormiva scappando via ai suoi primi pianti. Mio marito mi era vicino nelle visite, sempre a fare dei servizi quando restavo sola. Molti lo lodavano per la sua presenza convincendolo sempre più che quella sua allegria era tutto il necessario per andare avanti. Io non lo vedevo più oscurato dal bimbo e dalla mia oceanica stanchezza.
Non ce la facevo, non riuscivo a togliermi di dosso il peso di queste nuove fatiche e cominciai a dirlo agli altri. Non poteva esserci errore più grande. Chi aveva figli si vantava di aver superato muta ed eroica ben altre fatiche che solo in seguito avrei provato, chi non ne aveva invidiava le gioie dei bimbi sorvolando sul prezzo. Presto diventai noiosa e anche quel flusso di visite si trasformò in telefonate e poi nel silenzio chiassoso del pianto di mio figlio.
A quel punto non mi restava che lui. Cominciai a cercare in lui ogni forma di affetto nei miei confronti ma non ne trovai. Mi dicevano che crescendo non si sarebbe staccato da me, ma io non lo allattavo e non riuscivo a mantenere la calma quando piangeva. Quei pochi sorrisi erano destinati al padre, con me invece si corrucciava e finiva per cominciare con i suoi tremendi strilli. Mio marito, sua madre, perfino il pediatra e il prete cominciarono a pensare che questa sua rabbia fosse causata dal mio nervosismo. Pensavano ma non mi aiutavano, di fronte alla caterva di panni mi consigliavano di riposarmi, di fronte al pianto di stare serena. Ma poi andavano via lasciandomi solo il senso di colpa e la sensazione che non fossi all’altezza.
Così il sonno si è mescolato alla stanchezza e ben presto non ho più capito quando fosse giorno e quando notte. Questo tempo invernale ha fatto il resto privandomi per sempre di un po’ di quella luce che ho sempre bramato. Nemmeno l’allegria di mio marito mi consola. Quelle poche volte che sta qui vince il suo senso di colpa dandomi mille consigli su quello che devo fare. Non ho la lucidità nemmeno di ascoltarlo né di capire, quando sento chiudere la porta, se è tornato oppure è andato via.
Così stamattina non posso nemmeno dire se davvero era in braccio quando mi è caduto il pentolino per riscaldare il biberon o la macchia sul piedino non è una scottatura ma solo una zanzara. Nella memoria ho solo il suo pianto forte, così forte che pensavo volesse vomitare, tanto prolungato che credevo gli occhi si consumassero. Ho provato a calmarlo in ogni modo, a fermarlo desiderando con tutta me stessa che la smettesse, ad ogni costo. Così ho stretto quel corpicino tanto più forte quanto più piangeva, ancora forte anche quando pur calmandosi il pianto continuava ad agitare freneticamente le braccia, sempre più forte fino a che anche quell’ultima infinita agitazione si è fermata. Alla fine l’ho posato sul letto senza nemmeno capire se dormiva o era sveglio, gli occhi aperti a guardare il soffitto finalmente asciugati dal pianto.
A mio marito non peserà quello che ho fatto, si chiuderà nel suo dolore e dimenticherà tutto. In fondo non ama questo bambino che, così scontroso e lamentoso, non gli somiglia per niente e non ha mai fatto parte della sua vita. Penserà che ha trovato la donna sbagliata e sua madre gli dirà cento volte che lui ha fatto il possibile per evitare il peggio. Ma il peggio è arrivato da solo e ora non mi resta altro che seguirlo e scrivere su questo foglio che non sono pazza e che non l’ho fatto per esaurimento nervoso. Solamente mi sono imbattuta in un progetto più grande di me, che non avevo cercato e che non sono riuscita a portare a termine.
Lo guardo ora un’ultima volta, mi godo il suo mezzo sorriso e mi culla il pensiero di quello che poteva essere. È andata così e spero solo che esista, giù da quel balcone che mi aspetta, un paradiso dove possiamo rincontrarci.
Magari chissà, se il posto non è cattivo, potrebbe anche perdonarmi per avercelo portato così presto.