Una Giornata Di Lavoro parte I

Cesare Pietrucci emise un sospiro che aveva un retrogusto rantolato, mentre infilava la chiave nel cruscotto dell’auto. Non aveva un’auto aziendale, ed era già tanto se riusciva a strappare a quegli spilorci i rimborsi spese della benzina; già ottenere i rimborsi dei miseri pasti da fast–food o da bar era un miraggio. Questo era lo svantaggio più evidente nel suo campo di attività, il rappresentante per una piccola compagnia di telefonia; non osava lamentarsi, tuttavia, dal momento che questa attività gli permetteva di trovare il tempo, raggruppando rimasugli, angoli e morsi in capo alle giornate, per occuparsi della sua vera attività professionale. La sua piccola azienda a conduzione familiare non stava andando affatto bene, in tutta onestà. Ed è da qui che sorgeva il suo sospiro, quel rumore di fondo di un rantolo soffocato e mai espresso che poteva significare solo una cosa: insoddisfazione.
La sveglia aveva suonato sulla stessa, implacabile posizione delle lancette, come se in mezzo a quegli ingranaggi di plastica e metallo sottostesse un ordine cosmico precostituito, un codice segreto, figlio di una formula antichissima che avrebbe potuto cambiare la storia dell’umanità. Invece, ogni mattina strillava dal suo comodino con pretese da Ikea già usurato e difettato dopo una paio di anni di non‐vita accanto al suo letto orientaleggiante, e ogni giorno puntualmente non accadeva niente, perché era lui stesso che non faceva niente, se non correre avanti e indietro su quella Citroen che era a metà strada fra una monovolume e una station wagon. L’aveva scelta di un azzurro ceruleo, confidando che il design dinamico ma pastello gli conferissero nel complesso un aspetto svecchiato, mentre rincorreva, macinando chilometri e clienti, quella giovinezza solo sfiorata per tutta la sua vita. L’esteriorità frivola della sua auto cozzava come un pugno nello stomaco con il suo aspetto; alto, dai tratti marcatamente mediterranei, i capelli di un nero di seppia lucido e contrastato solo in punti sporadici dalla canutezza, gli occhi di un blu molto scuro, quasi nero, indefiniti; una presenza autorevole, imponente, resa ancora più altezzosa dal completo giacca e cravatta blu scuro, con camicia bianca, che aveva scelto quella mattina, impiegando, come al solito, più tempo a scegliere il completo giusto che a radersi e a lavarsi. Era importante apparire nel giusto spirito, in base al tipo di giornata da affrontare e alle persone con cui avrebbe dovuto interagire; ogni evento, ogni gesto aveva il sapore della lotta, della sfida, una battaglia contro la sorte, il prossimo, i propri limiti. Un buon venditore deve saper apparire affidabile, ma non remissivo; autorevole, ma mai e poi mai un pessimista. Pessimista è sinonimo di perdente, e il venditore che osava lamentarsi del destino avverso non avrebbe più venduto uno spillo, alimentando quel circolo di mediocrità e sfortuna concatenati fra loro come rotelle di un meccanismo ingegnoso e perverso.
Quella giornata si presentava particolarmente impegnativa, come già aveva avuto modo di constatare nel suo primo approccio con la quotidianità. Nel suo bilocale affittato ad un prezzaccio da un suo compaesano, non poteva fare due passi consecutivi in qualsivoglia direzione senza rischiare di inciampare o calpestare uno dei tanti scatoloni ammucchiati ed oggetti sparsi sul pavimento e sulle stuoie norvegesi secondo lo pseudo‐ordine di chi vive da solo e non ha alcun criterio a cui aggrapparsi per l’organizzazione dello spazio, se non la totale noncuranza dello stesso, in una chiave di lettura della propria sopravvivenza ridotta ai minimi termini evolutivi.
Il giro da compiere era di quelli snervanti, non solo per il tipo di percorso – una strada di provincia lenta e tortuosa che si districava, ramificandosi, attraverso piccoli borghi abitati appoggiati su sprazzi di pianura e troppo piccoli per contenere le auto che sarebbero aumentate di anno in anno, e stretti passaggi collinari da mal d’auto – ma anche per la tipologia di visite da fare. La crisi economica mordeva ai polpacci, e i suoi clienti si facevano sempre più esigenti e incontentabili man mano che passavano i giorni, i mesi, e si susseguivano le stagioni per lui sempre uguali, da come poteva percepirle dall’interno del micro‐clima sintetico e plastificato di aria condizionata del suo abitacolo, mentre correva avanti e indietro su quello spicchio di Toscana che molti avrebbero considerato da cartolina. Certo, non poteva rimproverare se stesso, se gli era capitato di intraprendere il suo piccolo giro d’affari in una congiunzione astro‐socio‐economica così complessa e irta di ostacoli; l’unica cosa a cui riusciva a pensare durante la giornata era arrivare a sera con i suoi obiettivi raggiunti, e la sera, a quello che avrebbe dovuto fare il giorno successivo, mentre quel ponte così instabile, sospeso nel vuoto, che collegava le due giornate, si rendeva sempre più insignificante ai suoi occhi, dato che ben poco della sua struttura temporale veniva utilizzato per riposare, e ancora meno era dedicato alla coltivazione e al rimpolpo degli affetti.
Certo, qualche distrazione se la concedeva, di tanto in tanto. Niente e nessuno poteva battere le serate fuori e le notti brave in discoteca; lì si che si sentiva veramente bene, tutte quelle luci intermittenti e mai adeguate lo facevano letteralmente evadere verso una nuova dimensione, dove era il martellare incessante del suo ritmo senza scopo a renderlo qualcuno. C’era solo una cosa che non poteva sopportare, persino in quella terra di nessuno di cui si proclamava signore e padrone: c’erano quegli schifosi ubriaconi e finocchi che si divertivano, sempre con maggiore frequenza man mano che il sintetizzatore divorava minuti e super‐alcolici, a strusciarsi contro il suo didietro sfruttando il pretesto e l’occasione dell’affollamento in pista, e palpando disgustosamente e voracemente le sue chiappe e affondando le loro luride dita nella sua schiena. Era sempre stato molto geloso del suo corpo, come di qualunque altra cosa di sua proprietà, e gli procurava un fastidio indicibile l’ipotesi che il suo territorio privato venisse violato da quelle manacce zozze e voluttuose. Eppure anche a lui piaceva toccare, palpare, assaggiare… Corpi di tutt’altra conformazione. Il suo ego virile non poteva accettare di essere violato, seppur con la flebile protezione del vestiario, da mani e dita di qualcuno che si mette al suo pari.
Così, era nata da questa paura, l’esigenza di salire sui cubi e sulle pedane. In definitiva, era nato tutto da quello, la sensazione inebriante della folla sotto di sé e l’aria da respirare a pieni polmoni intorno a sé, dentro di sé, donandogli un potere fantascientifico sul resto della scena. Era il suo spettacolo, e nessuno glielo avrebbe rovinato. Da lassù poteva dare le paghe ai ventenni galvanizzati e rintronati da troppa tv e troppe canne che arrivavano in pista e non avevano energie sufficienti neppure per deambulare da un piede all’altro, figurarsi poi coordinare il movimento dei piedi con quello, più scenografico, di ipotetiche braccia. Eppure erano loro, tutti lì, i suoi amici. I suoi amici testosteronici come ricordava la sua foto sovrapposta alle loro movenze esagerate e goffe di quando era lui, sul banco di prova. Aveva bisogno di loro, perché era grazie a loro se riusciva a sentirsi ancora vivo.
Mise in moto aspettando che si spegnesse la spia luminosa di avviamento del motore diesel, per iniziare il suo cammino in retromarcia, facendo slittare le gomme già consumate sulla ghiaia. ‘Prima passo a sentire cosa ha fatto quello scassamaroni del Puccio, va’! Mi pianterà una grana immensa per quel cavolo di batteria che mi aveva ordinato… Ma che pretende, dico io?! Quella sottospecie di cellulare scadente che si ritrova meriterebbe di finire nel secchio dell’immondizia diretto come un fuso, e lui si preoccupa che la batteria gli allenta! Magari tirasse definitivamente le cuoia, quel relitto! Almeno potrei rifornirlo io personalmente…’, pensava il Pietrucci mentre tentava di scrollarsi di dosso gli ultimi rimasugli di una notte agitata, correndo lungo le strade di campagna di una Toscana insolitamente malinconica, quell’autunno. Le occhiaie scavate come solchi nei campi dei contadini che non si arrendevano al consumismo post‐industrializzazione sarebbero rimaste, proprio come rimanevano le tracce delle coltivazioni precedenti e reiterate sui campi strappati alle braccia dei contadini per posarvi un avveniristico centro commerciale o magari un parcheggio a pagamento. Intorno a quel loculo ambulante riempito di musica dance e puzzo di sigaretta stantio e impregnato nel tessuto di tappezzeria, solo il silenzio della provincia di primo mattino, dove la ressa sulle strade per raggiungere il luogo di lavoro, non inizia mai veramente, ma procede a singhiozzo, e il traffico si spalma su una fetta di mattinata abbastanza ampia, che va dalle 7:30/8:00, orario di entrata delle fabbriche e delle piccole imprese, alle 9:30, orario di apertura di negozi e piccoli supermercati con clientela fissa e ordini ciclici. Non c’erano mai veri ingorghi, di quelli che Cesare aveva sperimentato a Milano, ad esempio, durante una delle sue molte peregrinazioni lavorative, in cerca di quell’idea vincente che gli permettesse di sbarcare il lunario e sentirsi finalmente qualcuno.
Ai lati della strada a due corsie, una angusta provinciale dall’asfalto costellato di bozzi e buche, alberi troppo stanchi, foglie ingiallite, che creavano un tappeto multicolore e irregolare ai piedi dei giganti della campagna, mentre la corrente estemporanea raccolta al passaggio di ogni autovettura, provvedeva a sollevare e trasportare le singole subunità del tappeto naturale, per poi depositarle di nuovo a terra, in una nuova posizione relativa, secondo la teoria del caos, o così parve realizzare, in un guizzo di illuminazione naturalistica, il Pietrucci, al passaggio dell’auto che precedeva la sua e che lo stava facendo innervosire già da alcuni chilometri, poiché non riusciva proprio a sorpassarla, e il suo conducente schiacciava il pedale dell’acceleratore come se stesse camminando su uno strato di uova e dovesse stare attento a non romperle. Gli imbranati al volante lo facevano innervosire in modo indicibile, e alternava così gli insulti verbali a teatrali gesti con le braccia e ampie boccate di tabacco trattato, aspirato dal filtro della sua Marlboro, una delle prime, quella mattina, di una lunga serie, secondo una perenne astinenza spasmodica, per la quale non avrebbe saputo dire dove finiva l’assuefazione fisiologica alla nicotina, e dove iniziava la tediosa abitudine di tenere la sigaretta in bocca o fra le dita, retaggio del senso di mitismo adolescenziale.  Si reputava comunque fortunato a vivere lì: il paesaggio intorno a lui, lastricato di dolci colline dalla pendenza mai arcigna, disseminate qua e là di piccoli borghi di matrice medievale, arroccati, oppure stralci di un dopoguerra essenziale e austero, pur tuttavia pieno di speranza, con i suoi centri abitati smaniosi di recuperare spazio al disordine o ad una natura troppo inselvatichita, allargandosi e stendendo le loro braccia indolenzite giù, attraverso la piana della valle.
Il bar del Puccio si trovava in uno spiazzo decisamente fuori mano, e questo contribuiva in modo determinate a rallentare la sua tabella di marcia di quel giorno; ma quella visita era necessaria, se voleva avere una flebile speranza di mantenere la rete di contatti così faticosamente costruita in una vita di lavoro di relazione, scambi di favori, clientelismi, fiducia conquistata a suon di sconti, affari redditizi i cui presupposti non venivano mai chiariti fino in fondo. I suoi clienti stavano decisamente meglio se non indagavano da quale ciclo produttivo provenisse la merce. Così come era meglio non chiedere come facesse la piccola compagnia telefonica per la quale prestava la sua enorme esperienza come venditore e consulente, ad ottenere allacci ADSL a prezzi così ribassati rispetto alla concorrenza di prima fascia, alle grandi compagnie che bombardano di spot televisivi le più vaste fasce di target di mercato.
Parcheggiò sul lastricato sconnesso, e lui era già lì, posizionato sullo stipite della porta d’ingresso del bar, residuato della struttura concepita in pieni anni ’70, quando i bar servivano come concentramento di idee, fermenti politici e culturali, oppure, come molto probabilmente era accaduto per quel locale nello specifico, come ripari sicuri, tappezzati d’alcolici, contro il tedio offerto da una quotidianità semplice e ciclica. L’insegna luminosa al neon, in alto a sinistra, proponeva un vacuo ricordo di uno splendore sempre inseguito ma mai raggiunto appieno, e proprio come l’attività che era chiamata a rappresentare, vivacchiava cercando di abbarbicarsi ad ogni impulso elettrico possibile, raschiando il fondo del barile di un impianto che non era mai stato a norma di legge.
“Accidenti, ce ne hai messo di tempo, eh Pietru’!? Se tardavi un altro po’ mi trovavi decomposto!”, esordì il Puccio, sfoggiando il suo ghigno d’annata, sbilanciato da un lato, collaudato ormai da anni di querelles dietro al bancone, cercando di farsi rispettare e di strappare ai suoi esimi clienti ogni millino, o più recentemente, ogni euro che gli dovevano. Aveva scoperto che era più facile ottenere quello che doveva, utilizzando il sorriso, e quelle battutacce che punzecchiavano il destinatario, colpendolo nell’orgoglio. Con l’astuzia di un’ironia intelligente era riuscito a farsi rispettare, in un ambiente fatto di tute di lavoro luride di grasso e olio, guance imporporate dalla grappa e squallide storia di corna da classe operaia, cosicchè, la sua clientela sapeva in modo trasparente quello che lui aveva da offrire, e non mancava più di pagare il conto. L’andatura incerta e claudicante per i troppi giorni trascorsi nella stessa posizione, e la schiena indebolita da due vertebre in fase di slittamento l’una sull’altra e almeno trenta chili in più, i riccioli selvaggi, radi e unti di chi non è abituato ad usare prodotti da bagno specifici per la cura di una calvizie subdolamente occultata dal volume occupato dalla forma della capigliatura, un volume vacuo, al di sotto del quale giaceva solo aria, frapposta al cuoio capelluto. Osservava il mondo attraverso i suoi occhietti azzurri molto chiari, quasi sbiaditi dal tempo, ma tutt’altro che vuoti; attenti ad ogni movimento, guizzavano da un lato all’altro della forma schiacciata dell’occhio per cogliere in fallo chiunque, per qualsiasi sciocchezza. Non aveva mai amato farsi prendere in castagna. Cesare ebbe un momentaneo moto di repulsione al livello dello stomaco, quando lo vide comparire nella sua salopette da lavoro di jeans e la sua maglietta di cotone bianca già chiazzata di sudore sotto le ascelle.
Cesare detestava il suo modo di fare ironia; e quella mattina già alterata dalla dabbenaggine dell’italiano medio sul nastro d’asfalto, riusciva male a sopportare la battuta introduttiva del suo cliente ormai decennale, gli arrivò dritta allo stomaco come il rollio estenuante di una barca in balia dell’onda lunga. “Dai, su! Poche storie, che ho i minuti contati! Non posso mica permettermi di bivaccare sulla soglia come te, a mirare il passo per ore, sai! Dai su, dimmi qual è il problema con quella dannata batteria!” Si accorse troppo tardi, quando ormai la frase era completamente uscita fuori dalla sua bocca come un nastro trasportatore che accompagna, inesorabile, il proprio carico verso il macero, di aver usato il tono sbagliato. ‘Questo è un lavoro di relazione, porca miseria! Idiota, quando imparerai a lasciare i tuoi scoglionamenti fuori dal tuo dannato cervello, quando sei con un cliente??’ Lo sguardo interrogativo di Puccio, nel frattempo sollevatosi dallo stipite, completò il giudizio implacabile. Ora doveva sfuggire alla condanna. Sospirò, inalando per un interminabile tempo di un respiro, l’odore profumato di pioggia, legno bagnato e tubo di scarico di autovetture in quell’autunno toscano troppo umido, rimpiangendo per un attimo, ma solo per un attimo, gli anni della sua gioventù nella sua Puglia, quando credeva che bastasse una tessera di partito per spaccare il mondo. A quei tempi era proprio una testa calda, uno di quelli con cui dovevi stare attento non solo a cosa dicevi, ma anche al tono, perché una battuta innocente detta con troppa disinvoltura o ironia beffarda poteva costare un bel battuto da parte sua e del suo clan di invasati del fascio. Mussolini era il suo idolo personale, e si riteneva uno di quei giovani, ferventi intellettuali del post‐sessantotto che potevano vantarsi una conoscenza morbosa, quasi diretta e sicuramente non scolastica del Dux. Credeva fermamente nella forza e nell’imposizione del più forte come solo ordine sociale in grado di garantire quiete pubblica e disciplina. Tutto quello che rimaneva ora, a distanza di vent’anni, di quelle convinzioni giovanili così strenue, era il piglio autorevole di chi vive la vita consapevole che niente è impossibile e che tutto può cambiare nel giro di un istante.
“Dai su… fai vedere al papi cosa ha fatto la pupetta mia!”, aggiunse con una dolcezza di plastica, per evitare repliche dal suo interlocutore. Dedicò la successiva mezz’ora a far comprendere al Puccio che non poteva pretendere di utilizzare il suo cellulare, già provato da una certa anzianità, come jolly risolutore delle situazioni pratiche più improbabili, e aspettarsi che un comune mortale di pezzo di ricambio non originale, continui a svolgere il suo compito senza risentirne. Lui lo guardava inebetito, annuendo meccanicamente e intercalando di tanto in tanto con domande poco pertinenti con la tecnica alla base del suo problema, e molto più pertinenti con l’ingombro economico che un intervento di consulenza del genere, di primo mattino, gli sarebbe gravato.
Cesare armeggiò per qualche minuto con il cellulare del Puccio, più che altro giocando a togliere e rimettere la batteria per cercare di depistarlo; la sua psicologia spicciola e i suoi trucchi da venditore nomade arabo che ne sa una più del diavolo sembrarono funzionare quando il Puccio cominciò a buttare di nuovo l’occhio aldilà del fornitore infingardo, per scorgere qualsivoglia movimento sospetto proveniente dalla strada o dal parcheggio situato dall’altro lato, questo semideserto, un contrappunto di silenzio rispetto al via vai quasi regolare di auto dal rumore troppo intenso per scorrere lungo il nastro d’asfalto ad una velocità regolamentare. Tutti sembravano in ritardo, perennemente, o in fuga; come una condizione fondante del loro essere, una maledizione della natura matrigna verso chi starnazza e non riesce a volare.
Lo liquidò infine con un rapido “ora devo proprio scappare, scusami!”, promettendo altresì un intervento immediato nel caso la batteria nuova avesse dovuto procurargli altri problemini. Così chiamava gli impedimenti logicamente prevedibili dati dallo smercio e utilizzo di pezzi, materiali e accessori non originali, per lo più made in China, con cui sperava da alcuni anni di rimediare un tenore di vita all’altezza delle sue aspettative, che non sarebbero mai state comunque pienamente soddisfatte, in ragione della sua smania congenita di avere sempre per le mani qualcosa di nuovo. Il Puccio non capì, ma non importava, perché almeno era stato considerato; quell’intervento gli aveva fatto perdere più di mezz’ora ma alla fine ne era valsa la pena, perché il Puccio poteva essere un piantagrane, il famigerato gatto attaccato ai santissimi, e farlo sentire un cliente di riguardo era una tattica di vitale importanza.
La strada scivolava via di nuovo veloce; era ripartito con una manovra di nervi, facendo rotolare una miriade di piccoli asteroidi chiari sotto le sue gomme da strada, e sotto lo sguardo perplesso e leggermente diffidente del Puccio, che con un laconico “bah” era ritornato a vegetare, appoggiando le sue membra flaccide allo stipite della porta d’ingresso del suo locale.
Cesare amava il preciso momento in cui il motore prendeva giri e cominciava a far scivolare ogni cosa che si trovasse al di fuori di quel nido meccanico sempre più velocemente accanto e tutto intorno a lui. La sua auto era il suo mondo, il piccolo centro del suo universo personale, fatto di cose sfreccianti, in movimento. Non era più lui che si muoveva, ma gli alberi di varie forme che sembravano sfiorarlo con le loro mani adunche, le case dalle persiane sempre chiuse, con le loro forme sempre uguali, il nastro d’asfalto sotto le ruote, i suoi piedi dall’attrito ridotto. Così creava l’illusione quotidiana di poter modificare il mondo intorno a lui, allontanandosi sempre più dalla tragica realtà dei fatti: era il mondo a modificare lui, erodendolo con il suo strusciarsi vischioso.
‘E’ il turno del mio amico Rino!’, pensò, mentre rimontava l’apparecchiatura degli auricolari del suo cellulare, altro momento catartico in cui si preparava ad affrontare qualsiasi notizia, a fiutare qualsiasi affare buono solamente dal tono di voce del suo interlocutore invisibile. Rino era un povero diavolo che di mestiere faceva l’assicuratore. ‘Dio solo sa come diavolo farà a permettersi tutti quei viaggi e quel Porche Caienne di merda che si ritrova vendendo polizze sugli infortuni e RC Auto agli operai e ai poveri diavoli come lui!’, bofonchiò con se stesso, mentre gli sbuffi di insofferenza verso la strada accidentata e tortuosa scandivano i suoi pensieri ad alta voce. La sua clientela aveva le estrazioni sociali e professionali più disparate, e questo non gli dispiaceva, perché gli permetteva di estendere potenzialmente all’infinito il suo raggio d’azione, e di variare gli articoli del suo repertorio in base alle richieste dei settori più in espansione sul momento, o meglio, quelli meno in crisi.
La giornata proseguì senza scosse, la routine scandita dalle svariate pause‐caffè e dalla pausa pranzo che di solito si dilatava fino alle 15:00, minuto più, minuto meno. Quei quattro o cinque locali che gli permettevano di rallentare il mondo fino a far congiungere il suo moto con quello degli altri esseri viventi e dare l’impressione di qualcosa di sincronizzato erano avamposti di rumori familiari di piatti, bicchieri, musica commerciale e profumi di pane riscaldato e formaggio filante, mentre le risate isteriche dei suoi compagni di prigionia soffocavano il rumore del pane troppo croccante fra la sua mandibola. Una tipa aveva tentato un approccio, quel giorno. O meglio, aveva azionato le tipiche contromisure seduttive femminili, che avrebbero permesso al Pietrucci di illudersi di poter fare la prima mossa con relativo margine di successo, sempre dipendente da come avrebbe giocato le sue carte, comunque. Era accaduto quando si era avvicinato al bancone per chiedere il caffè e il conto; lei si trovava a un paio di metri, e lo aveva subito adocchiato, da quando aveva effettuato l’ordinazione del caffè corretto al Baileys sollevando con autorevolezza il braccio destro. Lo aveva guardato, poi aveva abbassato lo sguardo velocemente, ma continuava a fissarlo grazie allo specchio di fronte a loro, sistemato in maniera strategica sulla parete dal lato del bancone del locale, in modo da permettere ai clienti di guardarsi in faccia tramite il vetro riflettente, sfumando visi ed espressioni di un colore leggermente ambrato. Lui se n’era accorto immediatamente, guizzando con l’occhio esperto di chi di manovre del genere ne ha viste parecchie, verso la donna sui quaranta, ma aveva fatto finta di niente. Erano più di vent’anni che rimediava appuntamenti in giro per i luoghi dove marcava il suo territorio, e non aveva più le energie per ripetere il solito balletto, la pantomima triviale in cui entrambi i partecipanti al gioco sanno che l’altro sta bluffando, fingendo di aver avuto l’apparizione dell’incarnazione dell’amore scesa in Terra, di interessarsi alla vita dell’altro come fosse la propria che ancora non hanno conosciuto, quando in realtà l’unico obiettivo, il chiodo fisso che guida ogni gesto o frase accuratamente scelta, è rimediare una scopata. Per giunta, quella non lo intrigava per niente; perciò, si era limitato ad accennare un sorriso in risposta alle occhiate fugaci e voraci di lei, bere rapidamente il caffè quasi in un solo sorso, e pagare il conto senza chiedere cosa avesse preso lei.