Una gita nel 1945

Dovevo avere poco più di due anni il giorno della mia prima uscita dalla città. Forse quella era anche la prima gita che i miei genitori facevano dopo la fine della guerra, grazie alla ricomparsa dei primi, rari litri di benzina venduti non a borsa nera. Era un pomeriggio di tardo autunno, probabilmente. Il mio fratellino maggiore dormiva sdraiato sul sedile posteriore dell’auto ed io, felice, me ne stavo in braccio a mia madre e guardavo di tanto in tanto fuori del finestrino della nostra Fiat Balilla nera a tre marce, già vecchia nel 1945. Ogni tanto, distrattamente guardavo, e ascoltavo mia madre e mio padre che conversavano o tacevano lieti. Assaporavo un’ineffabile e pervasiva felicità, che poche volte ebbi ancora modo di provare, prima che mi fosse usurpata per sempre dal nascere, inopinato ed incalzante, dei miei fratelli più piccoli. Assaporavo dunque quella serena pienezza estatica che la titolarità del grembo materno, caldo, sacro, luogo di delizia, sola può dare, quando ad un tratto trasalii: ebbi la subitanea consapevolezza d’essere come risucchiato, precipitato al cospetto del “mondo di fuori”, la cui presenza improvvisamente mi turbava e mi affascinava ad un tempo. Ecco là fuori, sconfinato ai miei occhi di piccolo bambino, ai piedi di quella collina della campagna romana su cui la nostra auto si arrampicava percorrendo una sconnessa strada bianca, il dispiegarsi di una superficie, chiazzata dai più diversi e cupi toni di verde e screziata di macchie color rosso ruggine, estesa fino a lambire laggiù nere e minacciose montagne. Non so immaginare a conclusione di quali percorsi di tacita cognizione e di subentrante bufera emotiva ciò avvenne, ma indicando quello che scorgevo fuori del finestrino mi trovai ad urlare: “il mare, il mare, il mare!… il mare, il mare, il mare!… il mare, il mare, il mare!…” e così via per qualche interminabile momento, quasi in stato crepuscolare, estraniato ormai dal paradiso interiore in cui ero immerso fino a pochi attimi prima. Mia madre mi sorrideva con dolcezza infinita ma, dimentica del mio essere un bambino di due anni, con ansiosa e sollecita apprensione, cercava anche di riportarmi alla realtà, alla sua realtà. Non poteva certo mia madre avere idea di quanto quell’episodio di mutamento di esperienza di “vivendo” mi aveva inesorabilmente cambiato. Avevo maturato una percezione del mio esistere qualitativamente differente: nulla di ciò che sentivo d’essere prima era scomparso, ma ciò che ero stato si trovava ad essere ricompreso in qualcosa di esperenzialmente sovraordinato che prima non c’era. E’ del resto ovviamente banale che mia madre, dal suo punto di vista, si preoccupasse del mio confondere una foresta estesa e vista dall’alto, con il mare. E’ altrettanto ovviamente banale che una tale preoccupazione fosse del tutto fuori luogo: che importanza poteva avere per me confondere una foresta con il mare dal momento che io non avevo mai visto prima né l’una né l’altra cosa! Da lì a pochi mesi avrei conosciuto da vicino anche il mare e la foresta cominciavo a sapere ormai cosa fosse. Ma era accaduto qualcosa di una portata ben più grande: ciò che aveva suscitato quel mio sconvolgente meraviglioso trasalimento era la scoperta tacita, esperienziale, diretta, per molti anni per me indicibile e incomunicabile, ma chiarissima da subito, dell’esistenza in me (nella mia “mente” avrei detto più tardi), contemporanea, contigua e integrabile, ma non omologabile, di una realtà di soggetto esperiente da un lato e dall’altro di una realtà in qualche modo inesorabilmente esterna, percepibile ma non esperibile. E mia madre stessa apparteneva (umanità tapina!) a questa seconda forma della realtà. Io avevo perduto la cittadinanza della valle dell’Eden e mia madre era lì a preoccuparsi che io avessi scambiato una cosa che ancora non conoscevo, una foresta, con un’altra cosa che ancora non conoscevo, il mare. La lettura dell’episodio ricordato può essere fatta solo attraverso l’analisi del frammento di “vissuto reale” che in qualche modo ripercorro nella sua interezza e nella sua estensione spazio temporale, nel ricordo d’ogni minimo dettaglio attinente alle scene che si susseguono, ogni volta che lo riporto alla mia attenzione. Ciò non può essere fatto altrimenti che usando gli attuali modi di ricostruirlo, ogni volta diversi, ma ogni volta perfettamente identici come esperienza di vissuto. Voglio dire con questo che quello riportato è qualcosa che, visto dal mio essere soggettivo, appare di qualità sostanzialmente diversa dalla maggior parte degli altri ricordi. Qui non manca nulla, è come se un pezzo della mia vita, venti trenta minuti, sia stato riprodotto e memorizzato nella sua interezza e nella sua plastica immutabilità: il vivere sentendosi parte di qualcosa, senza possibilità di manipolazione alcuna della realtà, in quanto non descrivibile né accessibile perché attinente alla parte tacita dell’esperienza.