Una scala per il Paradiso

I giorni vuoti, i giorni bui, i giorni senza senso e senza cielo, senza nuvole, senza sole, senza stelle… ma carichi di sogni e di speranze. Gli angeli non arrivavano, gli angeli se l’erano data a gambe. E da Dio nessuna notizia. Dio sembrava morto, forse lo era… O semplicemente non era mai esistito. E panchine di ghiaccio sulle quali spesso passava la notte, e alberi spogli, silenziosi e tristi, dai quali sembrava non fiorire nulla, solo sabbia. E poi il suo amico Daniele, quel suo caro amico…
L’amico immaginario di Angela si chiamava Daniele. Angela non sapeva bene perché avesse scelto proprio quel nome; sia come sia, Daniele era un grande amico, un amico sincero, leale, devoto. Era il suo angelo custode e lei spesso lo chiamava Angelo. Era grazie a lui che Angela aveva trovato la forza per scappare via di casa e inseguire il proprio sogno, ed era sempre grazie a lui che Angela trovava il coraggio di andare avanti e affrontare notti gelide e desolate, rannicchiata in qualche angolo di marciapiede.
Quella mattina Angela si svegliò sulla panchina di un parco. La sera precedente era talmente stanca e sfinita che era cascata subito addormentata, non facendo caso a quanto fosse duro e scomodo il letto che aveva scelto per la notte. Sbadigliò, poi si guardò intorno e si accorse che la giornata era splendida. Il sole si ergeva alto dalle montagne ancora innevate a est della città ed era luminosissimo, carico di una speciale aura benevola che sembrava avvolgere Angela in caldi scialli invernali. Angela era una ragazza bellissima. Aveva capelli biondi che al sole risplendevano come una cascata di oro e un paio di occhioni azzurri pieni di sogni e malinconia a un tempo. C’era qualcosa di infantile nel suo volto; forse era per via del suo sguardo ingenuo e credulone o per via dei suoi occhi che osservavano il mondo con la stessa curiosità di un bambino appena nato.
Angela raccolse il suo zaino, la chitarra acustica e si avviò lentamente e con fare pensieroso verso un bar. Prima di entrare, però, si frugò nelle tasche. Ne tirò fuori alcune monetine e le contò: erano sufficienti per fare colazione. Entrò sorridendo, ordinò una cioccolata bollente e un cornetto ripieno di marmellata.
Uscita dal bar iniziò a vagare per i labirinti della città, perdendosi in strade a lei sconosciute e ignara della direzione che stava prendendo. Mentre vagava, sognava. Sognava grandi teatri dove avrebbe cantato le sue poesie, sognava di finire un concerto e uscire in mezzo a una folla in preda all’esaltazione più totale che avrebbe dato un braccio pur di stringerle soltanto per un attimo la mano; sognava scorte e ville con piscina e prato fiorito, cuochi tutti per lei, quadri di valore, collezioni di monete antichissime… Ma per ora non era nient’altro che una barbona. Cantava e suonava le sue poesie per strada, non aveva un posto dove dormire, viveva alla giornata, affidandosi al destino e al caso. Così mentre suonava per strada, sperava nell’incontro fatale, l’incontro che le avrebbe cambiato la vita. Era convinta che un giorno le sarebbe passato accanto un importante produttore discografico, il quale l’avrebbe ascoltata e l’avrebbe portata a firmare un contratto da capogiro. Quando abitava ancora con i genitori, in un remoto paese di campagna dalla mentalità chiusa e arretrata, Angela andava raccontando frottole a destra e a sinistra. Affermava di aver vinto concorsi, premi, che le avessero offerto un contratto discografico. Qualche giorno prima di scappare via col suo carico di sogni e speranze, aveva detto in giro che andava via per incidere il suo album d’esordio, per il quale le avevano già anticipato una grossa somma di denaro. E in ciò che diceva credeva con cieca passione, confondeva quasi la realtà con la fantasia. Non erano menzogne le sue. No, erano piuttosto delle speranze.
Adesso erano passati due anni e mezzo da quando era andata via di casa, ma al suo paese natale nessuno aveva mai sentito niente riguardo a quel disco di cui aveva parlato. Angela ancora sognava di ritornare in paese con la scorta, entrare nel bar di Mauro e lasciare cinquanta euro di mancia per un caffè a quel Mauro che l’aveva sempre odiata e derisa, guardata dall’alto in basso, consigliandole con ghigno malvagio in viso di trovarsi un lavoro e smetterla di sognare ad occhi aperti.
Ormai erano le undici. Il sole era caldo, rovente, sembrava quasi il solleone d’agosto. Le strade del centro pullulavano di gente e Angela decise che era arrivato il momento giusto per suonare le sue poesie e racimolare un po’ di soldi. Aprì la custodia della chitarra e la posò in terra, poi iniziò a cantare con amore e dedizione. Passate due ore e mezzo raccolse le monete che i passanti le avevano offerto, ripose la chitarra acustica nella sua custodia e si avviò verso una salumeria, dove la conoscevano molto bene. Il salumiere era un sant’uomo, sempre generoso verso il prossimo e i più deboli, e così le chiedeva sempre meno del dovuto (circa la metà) e a volte perfino non le faceva pagare niente.
‐ Ciao, Carlo. Come va? ‐ chiese Angela entrando nella bottega.
‐ Oh, bene grazie. E tu?
‐ Non mi lamento. Me lo fai un panino col salame milanese e la mozzarella di bufala?
‐ Certo. E da bere cosa vuoi?
‐ Un’aranciata, grazie.
‐ I soldi ce li hai?
‐ Sì.
‐ Allora due euro sono sufficienti.
‐ Grazie.
Uscita dalla salumeria, Angela si avviò nel solito giardino pubblico dove pranzava quasi ogni giorno. Le piaceva quel giardino. Era un’oasi verde in una città piena di smog e cemento. Le sembrava di respirare un’aria diversa lì dentro, limpida, pura, quasi incontaminata. Si sedette su una panca pensando che forse avrebbe passato lì la notte. Mangiò il panino lentamente, con lo sguardo assorto in pensieri tutti suoi. Stava partorendo le parole adatte per una nuova poesia, una poesia sbalorditiva, la cui bellezza un giorno avrebbe rapito i cuori delle nuove generazioni alla ricerca disperata della felicità. Finito di mangiare, prese dallo zaino quaderno e penna e si mise al lavoro. Riuscì anche a finirla, quindi la rilesse. Era perfetta, un capolavoro d’arte contemporanea, un’opera di una delicatezza e una bellezza indescrivibili, piena di romanticismo e di atmosfere eteree e sognanti, intrisa di una sottile malinconia, quella stessa malinconia che si poteva leggere nei suoi grandi occhi azzurri.
Non appena ebbe finito di rileggere la poesia, iniziò il dialogo quotidiano con Daniele, il suo angelo.
‐ Ciao Angelo, come va?
‐ Bene. A te?
‐ Potrebbe andar meglio.
‐ Potrebbe, ma non va. E lo sai perché?
‐ Non lo so. Sarà il destino o la sfortuna che si è accanita contro di me.
‐ Certo! La sfortuna!
C’era qualcosa di strano nel tono di Daniele. Sembrava che si stesse prendendo gioco di lei.
‐ Sai, ho appena finito di scrivere una poesia. Stasera le do gli ultimi ritocchi e cerco di musicarla. Vuoi che te la legga?
‐ Ma cosa credi, che non l’abbia già letta?
Adesso il tono di voce dell’angelo era duro. Angela si sentì confusa, non riusciva a capire il perché. Daniele non si era mai comportato a quel modo.
‐ Sei arrabbiato con me? ‐ gli chiese.
‐ Sì Angela. È da tempo che volevo dirtelo, è giunto il momento che tu sappia la verità. Il tuo talento è di dubbia qualità, le tue poesie non hanno senso né significato, sono apatiche, monotone, senza sentimento. E la tua musica anche. Fai pena, Angela. Vali meno che zero! Stai prendendo in giro solo te stessa. Guardati! ‐ tuonò Daniele, spaventandola. ‐ Guarda come ti sei ridotta. Sei una barbona, Angela! Non hai speranze, rinuncia ai tuoi sogni, abbandonali! I tuoi sogni non potranno mai vedere la luce del sole!
‐ Ma io… ‐ disse Angela, sentendosi mancare il respiro. Le sembrava che il mondo le stesse cadendo addosso schiacciandola con tutto il suo peso.
‐ Ma tu cosa? Ammettilo. Avanti, ammettilo! Dì che in realtà non vuoi altro che i soldi, che il tuo obiettivo finale sono i soldi. Tu non sei un’artista, non crei per il piacere di creare, non crei per te stessa e per raggiungere la pace interiore, crei per diventare ricca! Sei falsa, Angela! E hai messo in scena questa farsa di dormire sotto i ponti per creare il tuo mito, il mito della giovane e bella ragazza di campagna che scappa di casa per inseguire il suo sogno. Non è vero? Non è vero che vuoi fare solo i soldi? Non è vero che da sempre sogni interviste in cui ti vanti della fame nera che hai patito per diventare una stella?
Angela deglutì a fatica, poi si fece coraggio e disse con gli occhi lucidi: ‐ Sì, forse è vero, ma ho visto quadri da centomila euro e li ho ammirati con occhi scintillanti dalla gioia, ho visto pellicce di visone nelle vetrine dei negozi e le ho ammirate come un critico d’arte ammira un’opera di Van Gogh. E poi ville le cui piscine avevano un’acqua di smeraldo… E tutte queste cose le possiedo nei miei sogni. È vero, hai ragione. Io penso ai soldi, amo i soldi, li desidero. Ma guarda i proprietari di quelle ville. Quanti di loro si sono arricchiti onestamente? Forse nessuno. Sono tutti direttori di banca, magistrati, docenti universitari, industriali… E non c’è bisogno che ti spieghi di che imbrogli sono capaci pur di arrivare al successo. Lo sai benissimo. Io invece li guadagnerò onestamente i soldi, con la mia musica e le mie poesie regalerò emozioni, sorrisi e nuove speranze al mondo. La scala per il paradiso me la sto costruendo da sola, con le mie uniche forze!
‐ Balle, Angela! La tua musica fa schifo. E le tue poesie anche. Trovati un lavoro, dà una svolta alla tua vita, altrimenti sarai destinata a marcire per strada, a morire sola e abbandonata da tutti. Torna a casa, i tuoi genitori non hanno mai smesso di amarti. Ti accoglieranno di nuovo. Torna indietro, la strada che hai imboccato non ti porterà da nessuna parte, solo alla rovina e alla solitudine, a pianti disperati e alla pazzia!
Angela si sentì girare la testa. Terribili pensieri sembravano la stessero consumando. Ad un tratto s’immaginò vecchia e piena di rughe, ricurva sotto il peso dei suoi anni, camminando a fatica appoggiata ad un bastone, costretta a passare le giornate rovistando tra i bidoni della spazzatura in cerca di qualcosa da mangiare. Deglutì di nuovo e disse pallida in volto:
‐ Angelo, io sono qui per un motivo ben preciso. Perché questi momenti, il lato brutto della vita, diventeranno altrettante poesie che un giorno suonerò nei più grandi teatri del mondo![1]
‐ E lascia perdere quel maledetto libro, ti ha dato alla testa! E poi Bandini il talento lo aveva per davvero. Tu non sei niente, e rimarrai niente, e se continuerai su questa strada finirai come quella vecchietta che hai appena visto. Sì, impazzirai Angela. E frugherai disperata tra i bidoni della spazzatura, non avrai speranze, sarai sola, malata, brutta, farneticherai tutto il giorno, sbaverai e dopo morta non avrai nemmeno una tomba con dei fiori sopra.
Angela rimase come pietrificata. La sua bocca non riuscì a proferire parola. Si sentiva tradita. Era stata tradita addirittura da Daniele, il suo angelo, il suo unico amico. Non riusciva a crederci, le sembrava di vivere in un incubo senza fine, un incubo dal quale non si esce più, nel quale si rimane intrappolati per l’eternità. Le pareva di non avere scampo, si sentiva come attanagliata, braccata, in trappola. Forse l’angelo aveva ragione, forse aveva visto giusto. Era quello il destino che l’attendeva: sarebbe morta come una barbona tra cumuli di spazzatura e magari cani randagi rabbiosi ne avrebbero assaggiato anche la carne prima che qualcuno si accorgesse del suo cadavere. Iniziò a piangere, un pianto dirotto, violento, interminabile. Infine scappò via correndo a perdifiato e le sue lacrime sembravano infuocare l’asfalto. Arrivò in un quartiere malfamato, pieno di tossici, spacciatori e prostitute. Incontrò una sua conoscente che di tanto in tanto spacciava un po’ di droga per tirare avanti e potersi fare tranquillamente.
‐ Ciao, Marta. Ho bisogno di farmi. Ti prego, non ho soldi, ma li rimedierò. Ti prego, ho bisogno di una dose! ‐ la implorò piangendo.
‐ Oh, piccola. Ma tu stai piangendo, sembri sconvolta. Hai bisogno proprio di una bella dose. Non preoccuparti, poi me li renderai i soldi.
‐ Grazie.
Angela, impaurita e smarrita, si punse e decise che non avrebbe mai più rivolto la parola al suo angelo.  Tratto dalla raccolta di racconti “Polvere di diamanti” edita da Statale11 editrice. Tutti i diritti riservati. [1] Riferimento a una frase di John Fante (alter ego Arturo Bandini) contenuta nel romanzo Chiedi alla polvere