Vecchia storia

Fumo.
Il vicolo è maleodorante per la presenza dei cassonetti della nettezza urbana, tuttavia, si può percepire distintamente l’odore acre del fumo di sigaretta.
Gli svariati mozziconi gettati in terra dai clienti della locanda, e non raccolti in giornata, fanno capire che almeno un centinaio di persone sono uscite dal ristretto portoncino in ferro sul retro. Nessuno di loro ha confessato di essersi accorto dell’omicidio. Uno, o anche di più, potrebbe essere il colpevole di quest’omicidio.
La vittima è un giovane che sembra non aver raggiunto la maggiore età.
Poverino.
Non avrà una seconda occasione. Forse aveva contratto un debito nei confronti di qualche pusher locale oppure c’è un altro motivo. L’indagine non si preannuncia per niente in modo semplice. Forse il coroner potrà darmi una mano.
«Ciao Walter. Non siamo un po’ troppo vecchi per esser usciti fuori di casa a quest’ora della notte?». Apro ai convenevoli mentre estraggo un enorme fazzoletto di seta dalla tasca e mi soffio rumorosamente il naso.
Walter Burns è accovacciato in terra intubato dentro una tuta bianca che sembra un preservativo stropicciato. Solleva il mento e mi lancia un’occhiata complice. Ci conosciamo da circa cinquant’anni.
«Che cosa vuoi sapere, Hildy?». Tossisce. Il mio amico non sta troppo bene. Glielo dico sempre che non si deve trascurare e che l’aria di Edimburgo è troppo umida per lui. «Devi solo domandarmelo. Prova a dire quelle dolci parole che usi sempre. Caro Walter senza il tuo prezioso contributo questa landa scozzese sarebbe un posto desolato e pieno zeppo di assassini impuniti in libertà. Perciò, per favore, e ribadisco PER FAVORE, cerca di far bene il tuo lavoro dandomi quegli strumenti indispensabili per arrestare il colpevole».
Alzo la testa e, con lo sguardo, fingo di cercare qualcosa sui tetti delle case vicine.
«Non so come abbia fatto quello».
«Quello chi?», ribatte il pedante coroner corrugando la fronte.
«Un cecchino che deve aver ucciso il tuo senso dell’umorismo», mentre accenno un piccolo sorriso sento lo sguardo del coroner trafiggermi il viso. Avrà modo di farsene una ragione. Sa che non cambierò mai il carattere. «Cosa mi puoi dire del nostro amico?».
«Chi? Il morto o l’assassino?», incalza Walter ridacchiando in modo sguaiato. Dovevo aspettarmelo. Un gallese, anche al nord del Regno Unito, rimane sempre se stesso.
«Il morto», replico quasi stizzito.
«È stato strangolato. L’assassino ha usato un robusto filo di nylon. Forse uno di quelli che si usano per le canne da pesca». Walter spiega ciò che ha intuito della dinamica dell’atto criminale, mentre io cerco d’immaginarmi la scena dell’omicidio. Ho quasi quarant’anni di servizio ma ancora non sono riuscito a imparare a fare il mio mestiere senza coinvolgermi troppo. «Deve avergli puntato un ginocchio sulla schiena e il resto puoi immaginarlo da te, senza il mio aiuto», è il laconico commento del coroner.
«Si tratta di un individuo dotato di grande forza, di un uomo e non di una donna, dico bene?», chiedo cominciando a vedere un minuscolo avanzamento dello stato delle indagini.
«Forse». Walter sta invecchiando e non se la sente di azzardare delle ipotesi. Il mondo moderno è molto cambiato da quando gente come noi si è laureata alla scuola del crimine. «Hildebrand… sai come vanno le cose, oggi». Il coroner si alza in piedi e si toglie dal viso la mascherina che indossava fino a pochi istanti prima. «Come si può esserne sicuri? Un tempo, il nostro, le donne lavoravano a maglia e uscivano di casa solamente se accompagnate da qualcuno ma oggi…», lo sguardo di Walter s’incupisce. Non è un bigotto maschilista ma soltanto un povero vecchio nostalgico dei tempi andati, quando i crimini erano assai più banali e sopportabili anche senza antiemetici. Oggi, il pover’uomo non si raccapezza più e gli assassini che è chiamato a smascherare insieme a me sono giunti a un grado di degenerazione e depravazione che nessuno mai avrebbe sognato, neppure nei suoi peggiori incubi. «Oggi anche le ragazzine vanno in palestra e consumano steroidi come fossero noccioline».
Gli metto una mano sulla spalla. Il vecchio amico non ha tutti i torti. «Uomo o donna che sia, l’assassino… o assassina… deve essere dotato di forza e resistenza fisica. Dico bene?», domando.
Walter risponde in modo quasi assente. «Sì».
«Bene. Un piccolo passo avanti lo abbiamo fatto. Mi sai dare qualche altro indizio?». Non sono sceso dal letto così presto, dopotutto, per starmene a prender freddo inutilmente.
Walter raccoglie un po’ di fiato. «Può essere che il nostro assassino sia mancino», esclama con un filo di voce. «Lo si deduce dal fatto che ha usato il ginocchio sinistro per far leva sulla schiena del malcapitato e che su quel lato, la gola del nostro caro defunto presenta segni evidenti di emorragia petecchiale più marcati».
«Come si chiamava il poveraccio?». Mi rendo conto solo ora che non conosco l’identità del cadavere ma rivolgersi a Walter è un errore. Non è lui a occuparsi di queste faccende.
Devo domandare ad altri colleghi.
«Hey, Jack», chiedo a un agente, «sai dirmi come si chiamava il pover’uomo?».
«Non abbiamo trovato alcun documento d’identificazione. Credo che dovrete risalire ai suoi dati anagrafici con le impronte digitali».
«Il che mi riporta a te». Esclamo con voce sibilante. «Quando sarai in grado di rispondere a questa mia domanda?».
«Non prima di questo pomeriggio. Ora sono le quattro del mattino e mi sto convincendo che prima di riuscire a risolvere il tuo atavico dilemma… chi siamo? Dove andiamo? Beh, saranno almeno passate altre dodici ore. Non credi?».
«Speriamo che oltre a un bel mucchio di ore passi anche questo tuo sarcasmo o Scotland Yard sarà in guai grossi… come montagne. Per il momento, ti ringrazio. Vatti a fare una dormita e poi stendi un rapporto degno di questo nome».
Mi volto di scatto e faccio per andarmene quando mi accorgo che i miei occhi stanno facendo l’arrocco per il troppo sonno. Mi fermo, attendo qualche istante e poi mi rimetto in cammino verso la mia auto. Mike Walsh, il mio medico, mi ha avvertito che, col mio stato di salute, non debbo strapazzarmi troppo. Artrosi cervicale la chiama. Io l‘ho battezzata con un nome più carino e adatto: “la stronza”.
Sì.
La chiamo proprio così.
Non me ne pento.
Non le ho chiesto io di entrare in casa mia e se c’è una cosa che trovo proprio insopportabile è chi si auto invita e cerca di vivere a scrocco. Quando raggiungo la mia auto, dopo essermi fatto largo tra colleghi, esperti della scientifica e semplici curiosi, mi accorgo che in questo settore della città persino i mattoni dei muri delle case sono colmi di umidità. Sono tentato di sfregare un dito su uno di essi per trovare conferma a questi pensieri ma, in fondo, ho già dato abbastanza alla mia professione e all’attuale mattinata scozzese.
Mi infilo in auto, allaccio la cintura e metto in moto.
C’è un assassino in libertà ma la verità è che per quanto bene possa fare il mio lavoro io sono e resto colui che arriva a cose fatte. Nessun detective è mai invecchiato e andato in pensione dopo aver acciuffato criminali prima che diventassero tali. È come se, ogni volta che viene commesso un crimine, un cronometro inizi a contare il tempo che rimane fino alla cattura del delinquente.
Quando arrivo nei pressi della mia abitazione, incomincio a capire perché ho l’artrosi cervicale. Anche il mio fisico non ce la fa più a sorreggere il mio cervello bacato.
Devo esser proprio matto.
Matto da legare.
Scendo dall’auto dopo aver parcheggiato sul vialetto. Percorro i passi che mi separano dall’ingresso di casa. Infilo le chiavi nella toppa. Uno scatto e sono dentro. Non accendo nemmeno la luce.
So muovermi abbastanza bene in casa mia.
È più facile quando gli arredi sono, come si dice oggi, “minimal”. Ho un frigorifero, che apro e dal quale prendo una birra ghiacciata, e una poltrona, sulla quale mi distendo in maniera scomposta. A me piace così.
«Ti servirà un apribottiglie se vorrai bere la tua birra».
Non faccio in tempo a pensare a qualcosa che mi ritrovo con la mia pistola in mano, in piedi, mentre accendo l’interruttore della luce. Davanti a me vedo un uomo alto, di corporatura robusta che potrebbe anche essere l’assassino che stiamo cercando ma il suo profumo è troppo costoso e i suoi abiti abbondantemente seri.
«Sei un poliziotto», mormoro aggrottando la fronte.
«MI5… bingo. Complimenti per i tuoi riflessi. Comunque, lui è del MI6». Mi invita a voltarmi ma non ce n’è bisogno. So riconoscere una canna di pistola puntata a bruciapelo contro il mio collo.
Loro sono in due e io solo uno stupido vecchio con i riflessi lenti.