Violino brasiliano

Carissima mamma e carissimo papà,
non vi lascerò sulle spine e vi dirò subito com’è andato il nostro matrimonio.
Molto semplice, con pochi intimi (parenti di Manuel e Rosa), nella chiesa del Santissimo Sacramento, al centro del paese principale dell’isola; una chiesetta tutta bianca e d’oro, circondata da casette antiche dai toni pastello, verdi, azzurre, che sembravano case di bambole. Era come se l’isola intera fosse diventata una grande chiesa, per tetto un cielo azzurro come non l’avevo mai visto in vita mia e per colonne palme da cocco gigantesche e alberi di mango. C’era di che illudersi che non fosse vero niente, che fosse tutto soltanto un sogno. E non potevo non esser parte di tutta quell’esuberanza di vita, sembravo una pianta tropicale anch’io tutta vestita di verde (non me la sentivo di vestirmi di bianco); tanto più che la paglia larghissima che avevo in testa Rosa l’aveva decorata con un arcobaleno di orchidee, una sola valeva un intero bouquet.
La prima cosa che si è diffusa qui al nostro arrivo è stato il mio passato. Com’è vero il proverbio “tutto il mondo è paese”! Parenti e comari di Manuel facevano di tutto per non darlo a vedere, ma io sentivo quel che dicevano, quando non ero presente. Che è successo a Manuel? L’Italia l’ha fatto impazzire? Ha forse dimenticato quell’angelo di Tereza, coprendo d’infamia la sua tomba, per sposare una sgualdrina come quella lì? Se non fosse stato per l’amore di Manuel e la dolcezza di Rosa, non so proprio come avrei fatto a sostenere i loro sguardi, in chiesa.
Non perché mi sentissi la Signora delle Camelie, la Maria Maddalena schiacciata dal giudizio dei benpensanti.
Era perché li capivo. Non è facile neanche per me seppellire Stella Flery, bambola da cabaret, con tutto il fango e i segni di bruciature che si trascina addosso. Voi l’avete vista già morente, quando Manuel aveva già fatto quasi tutto. Non credo voi possiate avere qualche idea di quello che ero diventata, dacché a quattordici anni scappai da Napoli e da casa, e non mi curai di quanto dolore vi avrei dato, per andare a gettar via la mia vita nei tabarin di Roma.
E poi, quando incontrai quell’uomo!
Non dovrei dirlo ma mi sembra di odiarlo ancora tanto; nello scrivere il suo nome, Manrico Caffarelli, sento un gran disgusto. Non l’ho mai amato, mai. Allora non avevo ancora odio per lui, perché ero troppo debole perfino per odiare. Ma, d’istinto, mi nauseava. Mi aveva nauseata fin dalla prima gara di tango cui mi aveva trascinato; e io non potevo non lasciarmi trascinare. Almeno lo avrebbe pensato qualunque altra ragazza al posto mio. Affascinava il nome, solo a sentirlo pronunciare si doveva svenire come mosche. Manrico Caffarelli, duca nientedimeno, con una di quelle famiglione alle spalle da far venire la pelle d’oca. Manrico Caffarelli, re del tango, del vero tango argentino, imparato direttamente dai tangeros di Buenos Aires. Manrico Caffarelli, imperatore delle sale da ballo di tutta Europa, con cui nessuno, ballerino da palcoscenico o da alta società, osava misurarsi.
Ma il fascino è presto svanito, ed è rimasta solo la nausea.
Avevo lasciato che lui distruggesse la mia vita, e non m’importava d’esser diventata Stella Flery, l’etoille del Bal Tabarin, con tutta la crema di Roma ai piedi, l’appartamento di lusso a Piazza di Spagna, eccetera, perché era lui ad avermi in pugno, ad aver fatto di me la sua schiava. E nessuno poteva aiutarmi, perché ero io a non volerlo, nel senso che non avevo più volontà. Così, anno dopo anno, a forza di urla da parte sua e di silenzi da parte mia, mi assottigliavo sempre di più, fino a diventare più che trasparente: fumosa, il gesto di una mano sarebbe bastato a farmi sparire.
Ma ditemi, carissimi mamma e papà, era vita quella? O piuttosto una morte lenta?
Avevo sempre la febbre addosso, cosa che non potevo dire a nessuno o mi avrebbero sbattuta fuori; sfido io, vivevo praticamente di notte. Si contavano sulle dita le volte che uscivo di casa prima di vedere i lampioni accesi dalla strada. Di giorno, anche quando veniva il maestro di ballo, anche quando facevo le mie otto ore quotidiane di ginnastica, tenevo sempre le persiane chiuse; quasi avevo dimenticato com’era fatto il sole. E la mia pelle parlava per me, le vene si vedevano tutte. Anche le ossa, ho toccato i quarantotto chili. E tutto quello che sapevano dirmi è che sembravo Mata Hari. «Come sei bella, sei proprio l’immagine della malata d’amore!» Quasi ci credevo anch’io all’immagine che loro si erano fatti di me. Mi risuona ancora nella testa la frase che Manrico diceva, quando si divertiva a provocarmi e la mia rabbia veniva fuori: «Pupattola mia, che cosa credi di fare? Tu non ci saresti nemmeno senza di me». Avrei dato tutto per provare qualcosa che somigliasse anche lontanamente a un’emozione, una qualsiasi; ho avuto perfino nostalgia delle due o tre lacrimucce che versavo al cinematografo da ragazzina davanti a una storia d’amore da mezza lira. Ormai ero soltanto questo, una bambola da cabaret, fatta per essere bella e basta; tra palcoscenico e tango, per poi finire, quando fossi venuta a noia agli uomini, in un letto d’ospedale, dimenticata da tutti, come la bella di cui cantavo nel mio cavallo di battaglia, mentre sul palco ballavo da sola mordendo una collana di perle. Forse l’avete sentita qualche volta alla radio, la incisi anche in un disco.

Addio tabarin, mie regge smaglianti d'or,
Gai e folli mercati d'ebbrezza e di fugaci amor.
Tabarin, quanto oblio mi desti tu,
Da quel di che laggiù la carezza d' un tango mi chiamò
E a scordar mi aiutò che dovevo finir
Un dì così.

E che anch’io dovessi finire così sembrava scontato a tutti. Anche a me. Non soffrivo nemmeno più. Mi guardavo allo specchio e vedevo, sotto il trucco, un volto sgualcito e consumato. E né più né meno di Caffarelli erano gli altri uomini, e non mi riferisco solo ai generali del partito fascista, che a parole non sopportavano le dorature e le abat‐jour rosse del Bal Tabarin e poi venivano a sbavare dietro a me come dietro a una cagna in calore. Credevano di poter avere tutto con i soldi, la leggevo nei loro occhi quella smania di comprare tutto per tutto annientare. E così compravano e annientavano anche me. Una bambola da cabaret.
Oh, ma io vi affliggo con le mie riflessioni invece di parlare di cose belle!  Forse non vi va neanche tanto che io parli di quello che per voi come per me è stato un buco nero, e non mi aspetto certo di recuperare cinque anni perduti solo con una banalissima lettera, ma se vi scrivo tutto questo lo faccio pensando a quella Domenica delle Palme, quando Manuel mi fece quella sorpresa, portandovi con lui alla chiesa del Gesù.
E voi non mi chiedeste niente. Non mi rimproveraste niente. Non mi rinfacciaste niente. Mi abbracciaste e basta.
Manuel è sempre pieno di sorprese. Anche ora, appena sposati, ha deciso di organizzare un ricevimento semplice ma speciale: una festa in riva al mare. Ci siamo sposati di pomeriggio, e la festa è cominciata al tramonto, alla luce di lanternini di ceramica, con una bellissima orchestrina in stile locale, con chitarre, tamburi africani e una fisarmonica. Il tutto in un misto di colori e aromi, danze a piedi scalzi, Rosa e la sua piccola Mariana che, come sempre, hanno superato se stesse ai fornelli. E tanta, tanta allegria.
Ma la vera sorpresa è venuta dopo la festa, nella casetta rivestita di mattonelle bianche dipinte d’azzurro come fosse di porcellana.
La mia prima notte di nozze.
Ero turbata e impacciata come una vergine, e non lo sono più da un pezzo, a riprova di quanto lui mi abbia cambiata.
Ora capisco perché non ha mai voluto che succedesse prima d’ora: avrebbe rovinato tutto.
Mi ha abbordato in tutt’altro modo, più profondo, in un certo senso più doloroso di questo; così mi sarei semplicemente gettata in pasto a lui e mi sarei bruciata per l’ennesima volta. Sarebbe stato troppo facile, e io avrei perso un’occasione.
E ne ebbi la vaga sensazione fin dalla prima volta che vidi lui, segretario all’Ambasciata del Brasile, un segretario qualsiasi da scartoffie e da macchina da scrivere, ballare insieme a sua sorella Rosa il samba, quella danza della sua terra, sentii per la prima volta quella passionalità irresistibile e solare da Brasiliano che mi ha messa sottosopra, mi ha ripulita di tutto quel fango e mi ha trasformata in tutt’altra persona. Detta così, la cosa potrebbe sembrarvi strana, forse anche abbastanza ridicola. In pochi pensano che otto passetti a suon di musica possano muovere qualcos’altro oltre le gambe. Invece è proprio così, è stato anche per quella danza, per la samba, che il calore fervido e violento di Manuel mi ha conquistata tutta intera.
Quel raggio di sole tropicale ha portato alla luce la pelle sotto la porcellana, sotto gli abiti Worth, i gioielli Cartier e quella dura maschera da scettica blues che Caffarelli e tutti gli altri mi avevano costruito sulla faccia. Non è stato indolore per me permettere che lui educasse il mio corpo a lasciarsi catturare dal ritmo della musica, e soprattutto che educasse la mia testa ad un diverso modo di pensare. Fui costretta ad acconsentire ad ogni suo capriccio, pranzare a casa sua, andare con lui in chiesa ogni domenica, prender lezioni di cucina da Rosa, giocare con la piccola Mariana. Malgrado tutto, quella zappa, affondando nella mia terra, con l’abitudine che non avevo più al calore di una famiglia, ha scavato un buco abbastanza grande perché Dio potesse gettarvi il seme, e, quando questo seme è sbocciato, la persona è saltata fuori dalla bambola, e ha potuto vedere che meraviglia è la vita.
Mi resta in mente un verso di una canzone samba, quella di quando Manuel mi baciò la prima volta: “Tutto il mondo non vale il cuore di chi è innamorato”.
Ma non mi sarebbe bastato sentirlo solo cantare, anche se c’erano le labbra di Manuel di sottofondo a dirmi che era vero. Ci dovevo sbattere la testa contro. «Por que l’amore è dare», come dice lui.
E io, che volevo che mi consumasse come tutti gli altri! Quanto ho bruciato di desiderio, notti intere, per il suo secco no, per i suoi rifiuti continui! E doveva far così, doveva, perché Stella Flery morisse e Giovanna Iannone potesse tornare alla vita.
Da Manuel e Rosa ho fatto tanta esperienza. Rosa, maestra nello stufato di gamberoni e nell’affrontare le prove più spaventose con il sorriso sulle labbra. Rosa, con tutte quelle statuine di santi e di madonne sul comò, ognuna con un rosario di colore diverso. Rosa, con la sua piccola Mariana di dieci anni, dai capelli corvini e dalla pelle color cannella, come la madre e lo zio. Rosa, con la sua bellezza e il suo slancio tutto brasiliano nella danza. Rosa, con la sua croce di esser stata violentata a diciassette anni e di dover crescere una figlia da sola.
E dire che all’inizio li avevo presi per pazzi, tutti e due. Mi dava quasi fastidio quel sorriso che vedevo loro sempre stampato in faccia, quando li incrociavo alla scuola di ballo che avevano aperto alla Suburra. Mi dava fastidio che i muri della saletta fossero tappezzati degli acquerelli che Rosa si divertiva a dipingere, quelli che rappresentavano il mercato a Bahia, la processione di Nostra Signora dei Naviganti, il Carnevale. Mi dava fastidio che loro vedessero colori accecanti quando io vedevo tutto nero. Sono nati già storditi dal sole dell’Equatore, mi dicevo.
Adesso so che non è così, che non è questione di temperatura o di latitudine, ma di persone. E Manuel e Rosa sono persone speciali, speciali come voi, carissimi mamma e papà; ognuno a suo modo. Queste due cose si sono incontrate quella famosa Domenica delle Palme, e fu allora che il seme sbocciò, che la porcellana si ruppe; quando sentii che non avrei vissuto un giorno di più a quel modo, che finalmente quella febbre mi aveva lasciata. Giovanna Iannone era ritornata a vivere. Credo che ricordiate ancora la risata liberatoria che mi scappò là dentro, e rovinò tutta la benedizione delle palme.
Ma quanta fatica c’è voluta! Soltanto un uomo come Manuel poteva imbarcarsi in quest’impresa. Con tutto il rischio di finire come l’esca che il pesce prende e poi scappa. E con tutti i sensi di colpa che gli vennero all’inizio per aver rotto la fedeltà alla memoria della sua prima moglie. Non è stato uno scherzo cominciare con le lezioni di ballo e poi passare a tutto il resto, ma io non riuscivo a negargli nulla, quando mi guardava negli occhi. S’è mai visto un paio d’occhi più neri, più intensi, più profondi, che quando vi si posano addosso, pare vogliano tirarvi fuori l’anima? All’inizio non li sopportavo quegli occhi, mi faceva paura che lui mi fissasse in quel modo; ma allo stesso tempo facevo di tutto per farmi guardare.
Ora so perché.
Un proverbio brasiliano dice: “Una goccia d’acqua batte tanto su una pietra dura che ci fa un buco”. Ed è stato proprio così, carissimi. In realtà, in un angolino del mio cuore, troppo buio perché anch’io potessi vederci, io volevo che facesse così, volevo che quello sguardo s’insinuasse nei miei occhi, mi accendesse il cuore, mi mettesse sottosopra il cervello, e comunque avevo paura che sarebbe rimasto tutto come prima. Invece è successo, ho trovato la forza di liberarmi dalle catene che m’imprigionavano fuori e dentro (comprese quelle con cui Manrico mi teneva in suo potere), ho rotto con quella morte lenta, e ora sono di nuovo io. Non sono più una bambola!
Ma perché tutti devono pensare che corpo e anima debbano per forza combattersi? Perché tutti devono pensare che è l’istinto quello che ci vuole per essere felici, quando servono tutti e due? San Giorgio potrebbe sconfiggere il drago senza il suo cavallo? E il cavallo cosa farebbe se San Giorgio non lo guidasse? Andatelo a pescare un uomo che la pensi così! Tutti gli uomini che ho conosciuto volevano solo il mio corpo. Solo quello, e basta. Come se io fossi un po’ di carne da palpare rivestita di biancheria di pizzo, preferibilmente francese. Appena mettevano gli occhi su di me, mi chiedevano un appuntamento, e non per una visita di cortesia; anche quelli che sembravano i più corretti, quelli che mi baciavano la mano, alla fine volevano quello. Manrico mi chiamava la sua piccola fumata d’oppio. Persino i miei colleghi del Bal Tabarin, nelle rare serate in cui ci riunivamo a casa mia davanti ad un bicchierino di cognac, sapevano parlare solo di quello. Ah, ho passato una nottata magnifica a casa della moglie del signor Tal dei Tali, sapeste che roba! Tutte cose ipocrite, finte, vuote! È così sconfortante!
Manuel è invece un uomo autentico, un uomo che sa d’esser fatto di carne e di spirito. E che sa usare allo stesso tempo l’uno e l’altro. E questo si vede, in tutto quello che fa: dal fuoco che arde dal suo corpo da atleta color caramello quando balla, alla profondità che sento nella sua voce e nei suoi occhi neri quando mi fa certi discorsi, fino alla dedizione totale di tutta la persona quando mi bacia. Della stessa identica pasta è fatta Rosa: cocco e cannella condite con una buona dose di peperoncino, e con in più una devozione da madre eroica. E, con tali esempi, scommetto che anche Mariana diventerà così, quando sarà grande.
La loro è una razza quasi unica, credetemi. Si può dire che il mio è stato un autentico miracolo: soltanto un uomo così poteva avere la forza di trasformare un mucchio di cenere in una foresta rigogliosa come quelle di questo Paese. Per questo ora non mi vergogno di quello che è stato il mio passato, anzi vorrei raccontarlo a tutti perché solo così si può capire quanto Dio è buono.
Qui ora è notte, sono seduta sulla sedia a dondolo nella mia stanza. Mentre scrivo ascolto la radio italiana. Ora stanno suonando “Violino tzigano”, proprio il tango che ballai con il Caffarelli la sera in cui conobbi Manuel, alla gara in cui lo vidi ballare il samba al Bal Tabarin: l’unica volta che lo vidi lì. Ascoltarlo non mi turba, perché ora so che da quella sera la mia vita non fu più la stessa. Mio marito dorme, non gli dà fastidio la radio accesa, anzi, gli piace. Qui fa molto caldo e lui dorme sempre mezzo nudo, e a me che lo guardo pare sprizzi sole anche nel sonno. Lo guardo e mi dico, finalmente sto vivendo sul serio, ho accanto a me un uomo forte e vero, una vera amica, e, lontani ma non meno vicini, due genitori meravigliosi.
Non temete, carissimi, tempo qualche mese e torneremo in Italia. Manuel deve riprendere il suo lavoro all’Ambasciata.
Abbiamo molto da fare anche a Roma: io sarò la sua alleata. Io e lui abbiamo una battaglia da combattere, in nome dell’essere umano e del suo Creatore, contro le onde di crudeltà e d’indifferenza che s’innalzano da ogni parte. Lo so, i tempi non sono i migliori per questo genere di battaglia, ma io ho intorno al polso il rosario giallo e viola dell’Addolorata. Rosa me lo diede tre mesi fa, e mi disse che quella era la mia protettrice. La sua è la Madonna della Candelora, dal rosario lilla.
«Nossa Senhora de Pena» mi disse Rosa quando me lo diede «è la patrona delle piante, dei fiori e di tutto quello che è verde. Vedi che dalle Suas mani giunte spunta un grande fiore? Le Suas lacrime sono come la pioggia: cadono a terra e la fanno fiorire».
Eue o, Senhora de Pena! Salute a te, Addolorata! Come vorrei che questo grido risuonasse dal Portico di Ottavia a Piazza di Spagna e riportasse alla vita e alla gioia quella gente! Roma sta soffocando, sta perdendo la speranza. Chi è sceso all’inferno lo può ben dire. Lì si sente da vicino questa nuova malattia che ci sta intossicando (non ne dico il nome, non sia mai dovessero sequestrare la lettera!).
E ora, che sono costretta a chiudere, in attesa di una nostra prossima visita a Napoli, spero tanto che la prossima volta che mi vedrete sarà con il pancione.
Itaparica (Bahia), 5 marzo 1928

Giovanna Iannone Galvão