Scacco matto.

Scrissi la mia prima poesia all’età di 12 anni.
Più che una poesia
era una specie di riflessione filosofica
che rasentava la saggezza
tipica di chi
col passare degli anni
è incline a vivere la vita
con indifferenza e distacco.

La “immortalai” su di un foglio di carta a quadretti
che dimenticai sul mio comodino.

All’ora di cena
mio padre
era più silenzioso del solito.
Masticava lentamente il cibo che aveva in bocca
con un ipnotico movimento delle mandibole.

‐ Abbiamo un poeta in famiglia! ‐ esordì con sarcasmo
rompendo il silenzio e guardando negli occhi mia madre.

‐ Oh! ‐ disse lei ‐ e chi sarebbe? ‐

Lui spianò lo sguardo verso me. Lentamente le sue labbra si contrassero in un ghigno.

‐ Ma chi, se non IL GRANDE HAL! ‐

Capii che aveva scoperto le mie parole.
Non alzai lo sguardo e continuai a mangiare.

‐ E cosa avrebbe scritto “il grande Hal”? ‐ chiese mia madre con una punta d’ironia.
A quel punto il mio vecchio mise una mano nella tasca dei suoi pantaloni,
sfilò un pezzo di carta piegato malamente e lo porse a mia madre con un gesto brusco.
Guardavo da sottecchi.
Considerai più volte l’ipotesi di alzarmi e rintanarmi in camera mia: ma non lo feci.
Ero stranamente curioso di sapere cosa avrebbero detto.
In fondo, loro due erano il mio primo pubblico.

‐ Non male questo Hal ! ‐ disse lei con un mezzo sorriso.

‐ NON MALE UN CAZZO! ‐ urlò lo stronzo ‐ E’ UNA COSA DA FINOCCHI, NON DA UOMINI!

Percepivo il suo sguardo, ma non alzai la testa.

‐ CRISTO DI UN DIO ‐ farfugliò ‐ UN POETA DEL CAZZO!
Mentre portavo il cibo alla bocca, avvertii l’irrefrenabile bisogno di piangere, ma il
mio orgoglio me lo impedì.

‐ NON TI PERMETTO DI PARLARE COSI’ DI MIO FIGLIO! ‐ urlò ad un tratto
mia madre.
Ero felice che prendesse le mie parti, ma il fatto di non avere la stima di mio padre
mi uccideva.

Trascorsero, bene o male, cinque anni.

Avevo preso l’abitudine di scrivere le mie cose su un libriccino tascabile.
Una sera, mentre andavo alla biblioteca comunale, ( era il periodo in cui leggevo le
biografie di tutti gli scrittori per vedere, se anche loro, nelle loro infanzia, avessero
dovuto sopportare delle umiliazioni ) mi resi conto di averlo scordato a casa,  nella tasca della mia giacca.
Fui preso dal panico.
Ritornai di corsa, mi precipitai in camera mia e vidi ciò che rimaneva delle mie parole: centinaia di coriandoli strappati alle belle meglio.
Ricordo di avere urlato la parola PERCHE’almeno dieci volte, mentre lui, dal salotto, senza nemmeno scomporsi disse:  ‐ SONO COSE DA FINOCCHI, NON DA UOMINI! ‐ .
Mi chiusi nel mio mondo e cercai di piangere. Invano.
Dopo quell’episodio trascorsero circa 15 anni, durante i quali mi sposai, ebbi 2 figli
e mi divorziai.
Continuavo a scrivere.
Mio padre si era trasferito con un’altra donna, 20 anni più giovane di lui, in un’altra città.
Mia madre invecchiava come solo una donna abbandonata può fare.
Anch’io invecchiavo.
Gli editori rifiutavano ciò che gli inviavo.
Le loro risposte erano sempre circolari.

“…apprezziamo molto il contenuto dei Suoi racconti ma, come Lei certo capirà, il nostro obbiettivo prioritario è la famiglia, quindi i Suoi scritti, eccessivamente scurrili
e reali non sono, per il momento, ciò che Noi vorremmo da Lei. Nel caso ridimensionasse la Sua emotività, saremmo ben lieti di proporLe un periodo di collaborazione di…”.
Iniziai a bere per non pensare.
Andavo ai reading di poesia alternativa che si svolgevano in un locale dove una compagnia teatrale faceva le prove.
Conobbi una marea di gente assurda.
Tutti con la segreta speranza di diventare qualcuno.
In quel momento non mi fregava più nulla di me stesso.
Cercavo di sopravvivere.
Volevo scaricare un po’ della mia merda, accumulata negli anni, a qualcun altro.
Ma era merda particolare. Incolore,inodore, insapore.
E quando la spargevo, facendo finta di niente, leggendola ad alta voce, c’era sempre quello/a che diceva: “ EHI, MA NON HAI VISSUTO NULLA DI ALLEGRO?”.

Cambiai luoghi di lettura.
Lessi le mie cose in certi pub talmente maleodoranti che una volta, tornando a casa ( da mia madre ) buttai via i vestiti indossati per quell’occasione.

Una sera di ottobre tentai il suicidio.
Mi svegliai in un ospedale dove l’infermiere continuava a dirmi di una tale persona che mi aveva salvato e che sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Non riuscii a ringraziarla.
Era una società strana. Non potevo decidere di morire in santa pace senza che qualcuno si arrogasse il diritto di impedirmelo.

Uscito di lì, decisi di riprendermi la vita in mano.
Non serviva nulla perderla.
Iniziai a frequentare una palestra, cercando di far risalire in superficie i miei muscoli
annegati nel grasso.
Un martedì mattina ricevetti una lettera da mio padre.

“…non c’è nulla di peggio che andarsene da questo mondo, sapendo che il tuo unico figlio non ti perdonerà mai per degli errori di gioventù. Se tu solo cercassi di capire
in che vuoto sto trascorrendo gli ultimi giorni che mi rimangono certamente potresti,
non dico perdonarmi, ma almeno riflettere sul passato e concederti un ripensamento
sui fatti che hanno contribuito a deteriorare il nostro rapporto…”.

Stracciai la lettera, infilai tutti i pezzettini in una busta e allegai un foglio con su scritto: “ AVER PAURA DI MORIRE NON E’ DA UOMINI! E’ UNA COSA DA FINOCCHI!”.

La affrancai e la spedii.

Dopo circa sette mesi e mezzo, una sera, nella buca delle lettere trovai una busta molto elegante, il cui mittente era un famoso notaio del padovano.

“…e secondo le volontà di Suo padre, NULLA  a Lei sarà dovuto ( secondo le disposizioni testamentarie del sopracitato), sia dei beni immobili, sia del patrimonio
personale così suddiviso:…”
Girai la lettera dal lato bianco del retro e iniziai a scrivere.

“ C’è un uomo che piange.
Ed è solo in una stanza.
In una stanza buia e silenziosa.
E’ lì perché vuole stare solo.
E non vuole sentire nessuno.
Il suo è un pianto disperato,
Non sò per cosa pianga.
Ad un certo punto
è tale il suo bisogno di silenzio
che decide di trattenere
ogni  più piccolo gemito.
Nonostante ciò, nel suo cuore
e nella sua anima, vi è frastuono.
Così decide di andarsene.
Esce da quella stanza.
E ritorna il silenzio.
Per essere esatti
il silenzio non si è mai mosso da lì.
Siamo noi a fare rumore.
Il silenzio è sempre esistito.
Ancor prima di Dio.
E quando ce ne dovremo andare,
da questa immensa stanza chiamata vita,
ritornerà.

Per l’esattezza,
continuerà ad essere.”

Questa era la prima poesia che scrissi quando avevo 12 anni.
Mi avvicinai al fuoco
che stava bollendo l’acqua per il caffè
e la bruciai.

Con quel gesto
feci l’ultima mossa
che decretò
la fine di una partita
durata oltre 30 anni.

Dopo uscii di casa.

Camminai a lungo quella mattina.

Ero un uomo.

Un uomo che scriveva poesie.

Non c’era nulla di male in tutto questo.

Ebbi come la sensazione
che un grosso peso
si staccasse dalla mia anima.

La partita era conclusa.

Potevo piangere.

Hal