Il più coraggioso dei vigliacchi

Mi chiamo Marco, ho quasi quarant’anni e questa è la mia storia: sono il più coraggioso dei vigliacchi.
Molti ci chiamano “vigliacchi”, molti altri “ingabbiati salariali”, io la penso diversamente! Siamo piccoli eroi sconosciuti, vittime sacrificali del profitto cieco e cattivo.
Il primo giorno in fabbrica lo ricordo ancora come fosse oggi. La sveglia alle cinque, il primo bus direzione zona industriale, l’arrivo in portineria.
Il primo caffè operaio non lo scorderò mai!
Marcando il mio tesserino nuovo di zecca entrai in stabilimento. Ero dentro, ed era strano per me perché lo avevo sempre visto solo da fuori lo stabilimento, di passaggio in superstrada; quelle gru gialle, quelle ciminiere, quei fumi maleodoranti, quel color rosso tutto intorno.
Ora ero dentro.
Ricordo il disorientamento. Pensavo fosse molto più facile invece non lo era, l’entrare in fabbrica era solo l’inizio.
Sembrava una vera città con tanto di fermate dei bus. Ognuno con destinazioni diverse, quelli che andavano in zona altiforni, quelli giù al porto, quelli alle cokerie e così via: non potevo permettermi di sbagliare! Mi sarei perso il primo giorno in quella città d’acciaio.
E secondo voi cosa feci?
Sbagliai autobus. Ecco cosa.
Mi ritrovai sotto a un reparto che non era il mio, e spaesato come un italiano il primo giorno ad Amsterdam iniziai a vagare alla ricerca del mio reparto.
Lo trovai due ore dopo.
Mi presentai in ufficio e da lì mi accompagnarono in uno spogliatoio fatiscente. Mi cambiai con calma, lo spogliatoio distava solo un paio di decine di metri dal mio reparto.
Quando fui sotto la scala che portava sul reparto mi fermai a riflettere. Mi guardavo intorno pensando solo a quante volte nella mia vita avrei usato quelle scale per salire e scendere dal reparto.
Respirai forte e iniziai a salire. Quando fui sopra percorsi un piccolo corridoio con muri di cemento armato e alla fine mi affacciai su Marte, ragazzi!
Sì, il paesaggio era spettrale, spaventoso, inquietante. Ricordo tanto fumo e due fiumiciattoli in cui scorreva un magma rosso abbagliante: Era ghisa. Ero sul campo di colata di uno dei cinque altiforni dello stabilimento siderurgico più grande e inquinante d’Europa.
Restai impietrito. Venivo da una vita sregolata, fatta d’alcool e divertimento, di locali e bevute, di poesie, scritture e libri, ed ora invece stavo su di un altoforno spaventoso.
Avrei lavorato lì? E per quanto tempo?
Avrei resistito a quel tipo di vita totalmente nuovo?
Mi risposi di no e respirai profondamente quell’aria malsana continuando a ripetere a me stesso che non avrei resistito più di qualche mese lì dentro. Non di più! Assolutamente non di più.
Mentre rientravo in ufficio per farmi spiegare dal capo reparto cosa avrei dovuto fare, passai  di fianco ad un gruppetto di operai che mi guardavano mentre ridevano di gusto, e nel mezzo di quel rumore assordante riuscii a captare solo una frase che mi rimase impressa nella testa
«Ah opera’, benvenuto all’inferno!»
Quella frase mi fece gelare il sangue nelle vene. Pensai che la mia assunzione sarebbe stata anche la mia ossessione. Il mio incubo. La mia condanna.
Erano invece passati dieci anni da quel giorno.
Ero ancora lì. Ero un operaio ormai anziano. Molto era cambiato in quel tempo, tanto altro invece no. Dieci anni di stabilimento, forse due o tre morti all’anno, per non parlare della gente che si ammalava di cancro o di quanti parenti di miei colleghi erano morti di tumore in tutto quel tempo. Mi ero assuefatto a tutto ormai!
Mi ero sposato, avevo una figlia, uscivo raramente: La metamorfosi era completa! Mi ero trasformato completamente. Avevo per un lungo periodo abbandonato anche la scrittura, i sogni, le speranze: la mia vita.
Avevo sigillato quel cassetto pieno di sogni, per far spazio ad una vita senza più stimoli, fino ad una notte ben precisa. Fino alla notte del otto gennaio del duemiladieci , la notte più drammatica e assurda della mia vita operaia.
Fu la notte in cui tutto mutò completamente. Fu la notte in cui si suicidò un mio caro collega. Fu la notte in cui presi la decisione di riprendermi la mia vita, la mia dignità, la mia penna, il mio futuro. Fu la notte in cui decisi di diventare il più coraggioso dei vigliacchi.
Avrei usato la mia penna affinché tutti sapessero cosa succedeva lì dentro, come si lavorava lì, in che condizioni e come si moriva in quella fabbrica e in quella città.
Salvo si era lanciato dal quarto piano del reparto, era atterrato fisicamente sull’asfalto scuro e la sua anima invece si era levata in cielo per sempre.
Il suo gesto estremo mi sconvolse e mi spinse a rivedere totalmente la mia vita.
Non si poteva morire cosi, non ci si poteva annientare per il vile profitto. Eravamo infetti dentro! Dovevamo tutti cambiare lo stato delle cose. Non potevamo più rimanere fermi, inermi, a guardarci morire l’un l’altro senza che nessuno potesse invertire quella rotta avvelenata.
La decisione era presa, da quel giorno la mia vita sarebbe cambiata: per me, per mia figlia, per Salvo e per tutti i colleghi volati via troppo presto.

Quella sera, lo ricordo ancora, ero steso sul divano ad ascoltare musica e a non far nulla. Erano da poco passate le feste natalizie e il paese aveva ripreso tutto d'un tratto la sua solita routine invernale; poca gente in giro e noia mortale.
Continuavo a chiedermi se andare o no a lavoro di notte. Ero in ferie, ma non avendo nulla da fare e sapendo di averne ben poche di ferie, l'idea di poter risparmiare anche un solo giorno del mio diritto a riposare, o di qualche spicciolo in più in un eventuale liquidazione, beh, di certo mi allettava parecchio. Inoltre sapevo di essere in esubero lì dentro. Ero un o dei tanti. Una formica tra migliaia di formiche. Non altro che un numero. Un niente!
Sì, mi attraeva davvero quel pensiero, ma sentivo uno strano sapore in bocca, quel sapore che non riesci a decifrare.
Mi sentivo strano, apatico.
Comunque decisi di andare a lavoro. Mi vestii in fretta e presi il bus al volo.
Il solito tragitto, la solita musica negli auricolari, la solita portineria e il solito spogliatoio freddo d'inverno e caldo d'estate. E  Lì dentro le solite grida di colleghi patiti del calcio, altri che cantavano chissà cosa, chi parlava ancora di quanto avesse mangiato durante le feste, e io seduto, lentamente mi cambiavo.
«Cazzo ci facevo lì?» pensai.
Sarei potuto restare sul divano a non far nulla, invece mi ritrovavo lì, annoiato e ancora con quella strana sensazione amara in bocca e nell'anima.
Comunque ero in cabina, dopo il classico caffè moka operaia, dato che ero in più, decisi di fare un giro di controllo con un paio di colleghi.
Quella notte era fredda, buia, ricordo che nel cielo non si vedeva una stella, e i fumi e i vapori dello stabilimento rendevano il cielo a strisce nere e macchie rosse.
Lo spettacolo non era dei migliori, ma d'altronde, quando mai lì dentro lo era? Quando mai lì dentro ci poteva essere qualcosa di veramente bello?
Mai!
Eravamo in una cabina elettrica a riscaldarci un pochino e a fumare una sigaretta in relax, quando ad un tratto l'interfono sul muro iniziò a chiamare noi, in modo assillante.
Il collega che rispose, subito dopo qualche istante di conversazione sbiancò in viso. Diventò grigio fumo. Il suo volto si tramutò e la sua voce diventò sempre più fioca e balbettante.
Riagganciò, e senza proferir parola si sedette su una tanica di olio.  Noi lo guardavamo, lui era muto, pallido; alzò lo sguardo lentamente e con un filo di voce ci consigliò di sederci.
Lo facemmo.
«Salvo è morto» disse.
Diventammo pallidi come il volto di un morto.
Non sapevamo che dire. Non ci sta mai niente da dire in certe situazioni. Si può solamente restare immobili, sentendo denso fumo nella testa, e un tremendo senso di torpore che paralizza le gambe.
«Salvo è morto» riprese, fissandoci come se stesse guardando il volto della morte  «Dicono che non si sa come. Si dice sia caduto. Dicono si sia lanciato nel vuoto. Non si capisce! Non si capisce. Dio, non si capisce!
Nessuno parlava. Non poteva essere. Era un errore, pensai. Forse era un incubo. Sì, forse non avevo neanche mai messo piede in quel posto.
Ma ero proprio io a trovarmi lì!
E Salvo?
Non poteva essere che un errore di persona. Assolutamente! Lui non era di turno, cazzo! Non era lui. Non poteva essere lui.
Poi razionalizzai. Feci mente locale; mi sbagliavo! Lui era di turno, ero io che sarei dovuto restare a casa. Ero io che avevo il giorno di ferie, non lui.
Mi alzai di scatto e mettendo l'elmetto al volo in testa, con gli occhi pieni di pianto mi catapultai in pochissimo tempo in cabina comando.
Fu una corsa veloce, di quelle che ti tolgono il respiro, di quelle che quando ti fermi devi chinarti, poggiare le mani sulle gambe e respirare profondamente per qualche minuto.
La cabina era piena di gente, ma era come vuota, muta. Nessuno riusciva a parlare. Vedevo solo abbracci fraterni e lacrime rosse color minerale. Vedevo solo la tragedia sui nostri volti. Vedevo solamente tragedia!
Salvo era morto, ci aveva lasciato sul suo odiato posto di lavoro.
Aveva chiesto d'esser spostato. Non riusciva a digerire quella mansione. Ma niente di niente capace di dargli una speranza! Una sola speranza di lasciare quella gabbia, quell’inferno: quel suo inferno.
Non aveva ricevuto che risposte negative e i soliti “poi si vedrà”.
Ed adesso, cosa?
Adesso niente! Non avremmo mai più rivisto Salvo. Non avremmo mai più rivisto quell'omone grande e grosso. Quell'omone sempre felice e sorridente aveva deciso di togliere il disturbo. Aveva deciso di non sorridere più.
Forse non riusciva proprio più a sorridere!
Salvo, che anche nei peggiori momenti sapeva con una battuta strapparti un sorriso, si era davvero tolto la vita.
Salvo era venuto a lavoro, normalmente, come tutte le sere, però a differenza delle altre volte era strano, silenzioso. Nel bus che dallo spogliatoio ci portava ai vari reparti non aveva parlato, se non per rispondere con educazione a qualche saluto. Poi era andato alla sua postazione, aveva svuotato accuratamente il suo armadietto, aveva scritto minuziosamente le consegne.
Era preciso, Salvo aveva chiamato il collega smontante per farlo rientrare e aveva avvisato sul reparto di chiamare l'ambulanza perché non si sentiva bene, ed invece uscendo dalla sua postazione solitaria fece quattro rampe di scale e sotto gli occhi di alcuni colleghi prese la rincorsa e...
…e il buio fu su di lui, su di noi, Salvo ci aveva lasciato, era volato in cielo schiacciato dalla pesantezza di una fabbrica frantuma‐sogni, distruttrice di realtà, di vite, di famiglie.
Il mostro aveva fatto l'ennesima vittima. Salvo era l'ennesima vittima!
Non era forse infortunio sul lavoro? Non era una morte bianca?
Sì, per me lo era. Per me non cambiava poi molto: c'è chi muore per impianti mal funzionanti e c'è chi muore per gestioni del personale senza cuore, senza un minimo segno di umanità e di rispetto reciproco.
In quella fabbrica c'era chi comandava e chi doveva essere comandato. La gente moriva, e la gente continuava a morire così, per un posto di lavoro amato e odiato.
Salvo in quella notte di acciaio e sangue ci aveva lasciato, ma in realtà ci aveva spronato, avvisato, messi in guardia. Perché lui era così: buono e premuroso.
In quella notte d'acciaio e sangue il mio modo di vedere le cose mutò radicalmente. Continuavamo a perdere colleghi e amici. Lì dentro si era come fratelli dopo qualche anno, e sentire una mancanza così non era normale. Era come perdere un fratello. Come se mi avessero amputato una parte del corpo.
E quale parte del mio corpo era Salvo? Forse il cuore?
«Basta, basta! Basta!» esclamai. Incazzato. Sofferente. Distrutto. Annientato.
Come non si poteva odiare gente che non si rattristava, non si fermava neanche vedendo un telo bianco con sotto un nostro fratello?
Maledetto fatturato! Maledetti soldi color del sangue. Maledette le nostre matricole! La nostra sola identità in quel dannato inferno di metallo.
Poi tornai a casa, almeno credo: una parte di me era rimasta lì. Una parte di me era morta assieme a Salvo.
Sì, ero tornato a casa, ero a letto e piangevo. Dopo una notte di pianti continuavo a piangere per il mio amico e collega e per tutti gli altri morti lì dentro; per i malati lì fuori, per quelli che sarebbero ancora morti e per coloro che si sarebbero ammalati per colpa di quella fabbrica assassina. Quella dannata fabbrica che ci stava succhiando via la vita, e solamente in cambio di briciole di pane che ci permettevano di sopravvivere.
A chi sarebbe toccato ora? Chi sarebbe stato il prossimo?
Salvo aveva sì chiesto aiuto: il loro aiuto! E quelli non lo avevano ascoltato. Quelli non avevano voluto ascoltarlo! Quelli non lo vedevano neanche a Salvo, come non vedevano me. No, erano colpevoli. Sì, erano solo dei boia legalizzati, questo erano, sono e saranno sempre.
Ma io avevo deciso! Ci avrei messo la faccia, mi sarei esposto a favore della città, degli operai e della gente che continuava ad ammalarsi e morire. A favore degli operai che entravano in fabbrica per lavorare e che non ne uscivano più.
Lo avrei fatto con l’unica arma a mia disposizione, la penna. Il mio cuore, la mia anima, la mia vita.
Mi addormentai, credo.
Dopo Salvo, erano morti tanti altri giovani dentro e fuori quella fabbrica che io definivo “Mostro”.
Erano passati altri sei anni da quella notte e avevo visto tanta altra gente morire. Molti ci chiamavano “ingabbiati salariali” o ancora “vigliacchi”, io invece mi sentivo il più coraggioso dei vigliacchi e mai nessuno avrebbe fermato la mia personalissima lotta contro il mostro; solamente la morte lo avrebbe potuto fare. Solo la morte!
Continuai a girare l’Italia e l’Europa cercando di far capire cosa subivano gli operai di quella fabbrica e i cittadini della città affacciata su di essa.
Morte, malattie, infortuni, inquinamento e zero diritti, zero dignità.
Eravamo presi a schiaffi ogni giorno tutti, e questo non andava bene, no, non andava affatto bene!
Era il momento in cui i vigliacchi avrebbero dovuto far sentire ancor più forte la loro voce, il loro grido di dolore. Il momento in cui i condannati a morte sarebbero usciti finalmente fuori da quel dannato cumulo di macerie.