Rea Silvia

(VIII secolo a.C.)

Osservo il Tevere, il nostro biondo Tevere che scorre placido verso il mare, tagliando in due la nostra amata Roma e mi domando per quale motivo viene appellato biondo. A guardarlo ora, sembra solo un ammasso di acqua marrone dove, ahimè, sguazzano pantegane da dieci chili l'una, galleggiano immondizia e rifiuti vari; dove si affacciano i gatti per afferrare con le loro zampette i pesci che affiorano e dove, bontà divina, qualche pescatore si porta seduto lungo la riva per pescare. Ci vuole coraggio. Non per pescare, bensì per mangiare il risultato della pesca.
Sospiro scuotendo la testa e in quell'istante odo sussurrare il mio nome. Mi giro, ma non vedo nessuno, tranne la fila di macchine incolonnate sul lungotevere.
Con un'alzata di spalle torno a volgere lo sguardo al fiume e in quell'istante sgrano gli occhi: il Tevere, il biondo Tevere, è tornato a essere biondo e cristallino. Tutto intorno a me è solo campagna, strida di gabbiani e pesci che guizzano veloci tra le due sponde che ora si trovano al livello della terra. Al posto delle macchine, delle orribili macchine caotiche, vedo lei, bellissima, con una tunica bianca indosso, stretta in vita da una cintura di cuoio e deglutisco prima di riuscire a fare un passo verso la sua figura.
«Come vedi,» esordisce con voce carezzevole, «il fiume all'epoca era biondo per davvero.»
«Già. Ma tu… Mio Dio, ma tu sei Rea Silvia.» balbetto attonita.
Sorride e annuisce con regalità, indicando il tempio di Vesta lungo la riva sinistra del fiume.
«Io ero una vestale, una sacerdotessa della dea Vesta, pertanto una vergine che sarebbe dovuta rimanere tale fino alla morte. Invece gli dèi avevano deciso diversamente, a dispetto della volontà di mio zio Amulio.»
«Un momento.» l'interrompo alzando una mano. «Tu sei la madre di Romolo e Remo.»
«Sì, è così.»
«E allora, come facevi a essere una vestale?»
Piega le labbra in un sorriso condiscendente e si volta verso il fiume, mostrandomelo. In lontananza, in una giornata plumbea dove la pioggia viene giù a catinelle, vedo un'imbarcazione con degli uomini a bordo e uno di questi che cade nel fiume, chiamando aiuto. Sussulto spaventata e vedo gli uomini che provano a governare la barca in tutte le maniere contro la furia degli elementi, mentre uno si sporge e tende la mano per agguantare il braccio che si protende dall'acqua.
«Non riusciranno a salvare il loro re.» mormora Rea Silvia. «Quell'uomo si chiamava Tiberino e il fiume se l'è preso perché era un re buono e saggio. Per questo il corso d'acqua è stato battezzato Tevere, a perenne ricordo del re morto annegato. Tiberino è un mio antenato, discendente di Enea, il fuggiasco di Troia.»
Mi giro a guardarla con la bocca aperta e lei continua:
«Il figlio di Enea si chiamava Ascanio Julo, colui che diede vita alla Gens Julia, di cui noi siamo i discendenti. È evidente che da Enea a noi siano passati alcuni secoli e Tiberino è uno dei tanti re assurti al trono prima dell'avvento di Proca. Proca era mio nonno, il quale, morendo, lasciò il suo regno di Alba ai due figli maschi: Numitore, mio padre e Amulio, mio zio.»
«Una diarchia.» commento.
«Non proprio. Mio padre, essendo il maggiore, sarebbe dovuto diventare re, ma aveva deciso di lasciare il trono a mio fratello, preferendo rimanere un comune cittadino. Purtroppo, non aveva fatto i conti con mio zio Amulio, il quale ha brigato per salire al trono, uccidendo prima mio fratello, poi, con raggiri di parole e belle prospettive, costringendo mio padre a farmi divenire una vestale, in modo tale che non potessi avere figli maschi a cui lasciare il trono.»
«Questa cosa è orrenda.»
«Trovi? Da che mondo è mondo, il potere ha sempre fatto gola a tutti e mio zio non ha fatto nient'altro di diverso da quello che hanno fatto gli uomini in avvenire. Per caso, puoi farmi il nome di un solo uomo che sia riuscito a salire al potere senza giungere a compromessi, senza macchiarsi le mani di sangue, senza rinnegare il passato?»
Abbasso lo sguardo e mi mordo le labbra, ben sapendo che ha ragione ma che, comunque, continuo a ritenere raccapricciante ciò che gli uomini giungono a fare pur di spianarsi la strada e divenire qualcuno.
«A quanti anni sei entrata nel tempio di Vesta?»
«Dieci anni. Le vestali erano sempre tre, di natali nobili e venivano allevate fin dalla più tenera età per accudire i sacri cimeli e il fuoco perenne. Per ovvi motivi, diventavi simile a una dea, la gente per strada si prostrava al tuo passaggio e vivevi il resto della tua vita nel tempio. A turno dovevamo mantenere il fuoco sempre acceso, pena la morte.»
«Perché?»
«Perché il fuoco era considerato un dono divino e se per caso si fosse spento, carestie, siccità e disgrazie infinite si sarebbero abbattute sull'umanità. Quindi, a noi il compito di tenerlo sempre acceso, allegro e scoppiettante.»
La vedo osservare il tempio e il suo sguardo si offusca, memore del suo tragico destino e dei capricci degli dèi.
«Eri felice?» domando.
[Rea Silvia] «Felice come può esserlo una giovane e bella donna che sogna l'amore.» risponde con un velo di sarcasmo.
«Amore che a te era negato.»
Sospira mesta e si tira indietro una ciocca di capelli. È così bella e dolce che mi chiedo come abbia potuto, suo zio, avere un cuore così duro da strapparla alla vita.
«Un giorno, al tempio,» mi racconta, «venne a trovarmi mia cugina Anto, la figlia di Amulio. Mi raccontò di essersi innamorata di un uomo bello e ricco e che presto si sarebbero sposati per avere figli da destinare al trono. Era il coronamento dei disegni di mio zio. Io e mia cugina ci eravamo sempre volute bene, eppure lei non poteva capire, in quel momento, quanto potevano ferirmi le sue parole. Anch'io desideravo sposarmi e avere figli, ma non l'avrei mai potuto fare, a differenza di lei.»
«Frustrante.»
«Fintanto che ero stata adolescente, la cosa non mi toccava, però con gli anni… Poi…»
La vedo illuminarsi in volto e per un attimo rimane in silenzio, rapita da un fugace ricordo che la porta lontano da me. Io rimango in attesa e scruto di nuovo il Tevere, dove alcuni gabbiani si tuffano per catturare il pesce e dove un gruppo di contadini si è riunito lungo la sponda per pescare. Sorrido ripensando ai pescatori moderni e mi domando che sapore aveva il pesce all'epoca.
«Poi, un giorno,» riprende a raccontare, «mentre ero al fiume per attingere l'acqua, un guerriero bellissimo mi ha avvicinato, mi ha aiutato con la brocca e siamo rimasti insieme per tutta la notte. Io non potevo saperlo, ma quel guerriero era il dio Marte che aveva preso le sembianze di un uomo per potermi amare.»
«Allora Romolo e Remo…»
«Eh, già, sono i figli di Marte.»
Sorrido, trovando la cosa alquanto sciocca, scettica come qualsiasi persona priva di Fede, ma lei mi fulmina con i suoi occhi ed io smetto subito di sogghignare.
«È un problema tuo.» mi getta in faccia. «Noi abbiamo creduto per secoli ai nostri dèi e loro ci hanno guardato con fare paterno, indicandoci la via giusta da seguire e punendoci quando eravamo indisciplinati.»
«Come è capitato a te.»
La vedo irrigidirsi per una frazione di secondo, quindi ammette:
«Sì, come è capitato a me. Sono svenuta mentre ero di turno davanti al braciere sacro e il fuoco si è spento. Inutili i tentativi di farlo riprendere: per colpa mia, la sciagura si sarebbe abbattuta sull'umanità.»
«Sei svenuta perché eri incinta.»
«Malaugurio su malaugurio. La morte era l'unico modo per espiare la colpa e neppure essere principessa mi poteva salvare.»
«Però hai comunque partorito.» faccio notare.
«Sì, certo, ma prima sono stata murata viva.»
Sgrano gli occhi inorridendo e lei mi posa una mano sulla spalla, quasi a volermi confortare.
«Fortuna per me che avevo Anto. Lei ha corrotto le guardie, le quali hanno abbattuto il muro e mi hanno portato nelle stanze di mia cugina, al sicuro. È ovvio che mio zio è venuto a saperlo; a quel punto, tuttavia, non poteva più fare nulla: ha lasciato che portassi a termine la gravidanza e quando i gemelli sono nati, me li ha strappati e li ha fatti uccidere dalle sue guardie.»
«Ma non è vero!» esclamo.
Lei sorride e risponde:
«Questo lo so. Ma all'epoca era questa la voce che correva. In realtà, come tutti sanno, le guardie non hanno ucciso i miei figli: li hanno lasciati in una cesta, sul fiume, un po' come Mosè.»
Sorrido ed esclamo come una scolaretta:
«Una lupa si è presa cura di loro. La lupa capitolina, il simbolo di Roma.»
La vedo ridere di gusto e mi fa notare:
«Ma come! Sei scettica sugli dèi eppure credi alla favola della lupa?»
Il sorriso svanisce dalle mie labbra e rimango a guardarla con aria interrogativa. Lei allunga la mano e mi scompiglia affettuosamente i capelli, come una madre che vuole riprendere una figlia.
«Certo,» conviene, «una lupa li vide, ne avvertì l'odore e si avvicinò alla cesta, senza divorarli. Fu lo strano comportamento della bestia che attrasse l'attenzione di Acca Larenzia, la donna che si è presa cura dei miei figli. Tutto qui.»
«In questo modo fai crollare un mito.» borbotto querula.
Lei sorride e ribatte:
«E tu perché non vuoi accettare il fatto che Romolo e Remo fossero figli di Marte e discendenti di Venere? Gli dèi per noi erano tutto, così come Dio lo è stato per i cristiani.»
«Quindi, asserisci che Enea era figlio di Venere, che i suoi discendenti hanno fondato la città di Alba della quale erano i legittimi re e che tu, ultima in linea diretta, hai avuto una storia con Marte che ha generato il primo re di Roma.»
«Sì, è così. Semplice, no?»
La guardo a lungo, comprendendo che non doveva essere stato facile per lei rinunciare ai figli per ordine dello zio, credendoli addirittura morti e domando:
«Dopo aver partorito, cos'hai fatto?»
«Tu cosa pensi che abbia fatto? Ero stata condannata a morte, se ben ricordi.»
«Già. Sapere che hai dato alla luce il fondatore di Roma, come ti fa sentire?»
«Ora ne sono orgogliosa; ciò nondimeno non dimentico che per fondare questa città, divenuta un impero, è stato sparso il sangue dell'altro mio figlio.»
«Brutta storia.»
«Anche se poi Roma è diventata quello che è, non potrei mai perdonare Romolo. È stato un grande, ne convengo e nessuna madre potrebbe essere più orgogliosa di me, ma ha seguito le gesta di mio zio e questo, ai miei occhi, inficia tutto ciò che ha fatto.»
«Non essere così severa con lui. Se noi ora stiamo qui a parlare, lo dobbiamo alla sua audacia, alla sua fermezza e alla sua risolutezza. Ha lasciato nelle mani di Numa Pompilio una città bene avviata, con solide fondamenta dalle quali avrebbe preso il volo.»
«Già, l'aquila imperiale.» commenta volgendo lo sguardo al Tevere. «Chi l'avrebbe detto che dalla fine di Troia sarebbe sorta una nuova e più potente città? Neppure Omero avrebbe potuto immaginarlo.»
«Tu hai veramente sacrificato la tua vita per Roma, prima ancora che Roma sorgesse.»
Sorride e la sua immagine inizia a divenire diafana; alle sue spalle torna a materializzarsi il traffico caotico di Roma, riportandomi bruscamente alla realtà. Allungo una mano per evitare che la bella Rea Silvia svanisca all'ombra del tempio di Vesta, ma all'improvviso non la vedo più e il biondo Tevere è tornato a essere melmoso e marrone.