Perché essere felice quando puoi essere normale?

Libro "Perché essere felice quando puoi essere normale?" di Jeanette Winterson

"Ecco cosa ci offre la letteratura: una lingua che ha il potere di dire le cose come stanno. Non è un luogo dove nascondersi. È un luogo dove ritrovarsi".
Nell'autunno del 1975 la sedicenne Jeanette Winterson deve prendere una decisione: rimanere al 200 di Water Street assieme ai genitori adottivi o continuare a vedere la ragazza di cui è innamorata e vivere in una Mini presa in prestito. Sceglie la seconda strada, perché tutto quello che vuole è essere felice. Tenta di spiegarlo alla madre, che però le chiede: "Perché essere felice quando puoi essere normale?". Da questa frase inizia il racconto indimenticabile della Winterson che ci offre a tutto tondo un’analisi di quella che è stata la sua infanzia, in mezzo ad un padre troppo spesso assente o volutamente taciturno, potrebbe ben dire quasi uno schiavo della moglie, nonché madre ingombrante (adottiva) di Jeanette. Una madre uscita fuori di senno che si divertiva a punire Jean, a lasciarla fuori casa accoccolata sui suoi gradini, attenta solo all’economia domestica – e neanche troppo – con una sessualità assente, si potrebbe dire non pervenuta.
Ossessionata dalla sua fisicità, allo stesso modo ingombrante, dal Vangelo che recita ogni giorno a memoria quasi fosse una melodia, dalle torte e dai suoi lavori di ricamo. Una donna succube della propria solitudine, che forse sperava di trovare compagnia in Jean, sua figlia adottiva (?), una donna che odiava i libri, se non la narrativa del disimpegno, che della casa aveva fatto un luogo sacro, privo di peccato, e impossibile da contaminare da altri libri, se non quelli che prenotava in biblioteca, storie legate a morti, redenzioni, peccati espiati, e qualche traiettoria poetica.
Jean è in gabbia, si sente soffocare, vive un affetto provvisorio e intermittente che non sente pienamente proprio e cerca di consolarsi attraverso i libri, rigorosamente presi di nascosto e messi sotto il materasso: "Ricordate la storia di Filomela, che viene stuprata e a cui tagliano la lingua perché non riveli l’accaduto? Credo nei racconti e nel potere delle storie perché ci permettono di parlare una lingua sconosciuta. Non veniamo ridotti al silenzio. Tutti noi, quando subiamo un trauma, ci ritroviamo a esitare, a balbettare; ci sono lunghe pause nel nostro discorso. Ci è impossibile esprimere quel che abbiamo dentro. E possiamo reimpossessarci della nostra lingua solo attraverso la lingua degli altri. Possiamo rivolgerci alla poesia. Possiamo aprire il libro. Qualcuno è stato lì per noi e ha scandagliato le parole […]".

La Winterson ci regala pagine dolorose, pagine complesse di introspezione umana, pagine di indagine sul senso di sé e quel senso di smarrimento costante sul filo della follia, sulla famiglia che le è capitata, sugli affetti, sulle possibilità del tempo e sui sipari della scrittura, tracciando un filo rosso intorno a tutta la narrazione, che può essere riassunto da questa citazione: "Certo, siamo tutti esseri umani. Certo, amare è un impulso naturale. L’amore esiste, ma abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo insegni. Vogliamo stare in piedi, vogliamo camminare, ma qualcuno deve tenerci per mano, darci un po’ di equilibrio, guidarci un po’, rialzarci quando cadiamo [anche quando chi ci insegna e ci guida è una madre snaturata, matta, e alla ricerca di un’accettazione personale mai avvenuta N.d.r.]".

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  • Casa Editrice
    Mondadori
  • Dettagli
    206 pagine
  • ISBN
    8804685220