A B.

Ne eravamo fuori ma non impermeabili.
Le città di provincia si fingono metropoli
ma vivono come paesini e ti contagiano.
Ti trovi a dire cose e a farne altre
come un predicatore da proverbi o –
più veritiero paragone – un politico.

Se io ero suola in gomma, tu polacchine.
Se tu eri gambe lunghe, io gambe storte.
Eri entrata nella mia vita al passo
di quelle lunghe gambe: passerella?
cerimonia? Sfilavi a testa alta e
ne uscisti curva, come di nascosto.

Niente era tra me e te a separarci;
né distanze né altro. Di tutti i chilometri,
di strada, ferrovia, solo ponti telefonici
o lettere e saluti quando non c’era altro
alla portata. Per quello adottai i versi,
erano il ME autentico e non pagavo.

Forse non sarebbe stata uguale
la vita se non fossi partito.
Ci separava una strada ferrata, noi
che dormivamo in letti separati con
lettere e telefoni provavamo
a non dimenticarci i nostri odori.

E avremmo potuto farlo un figlio.
Lo vedevo il mio futuro, invecchiato
con te al fianco, lana sulle gambe.
Potevi diventare madre.
Che futuro videro i tuoi occhi?
Non quello mio: né fatti, né persone.

E ciò che le orecchie non sentivano
non era detto dalle tue amate labbra
come per gli occhi ciechi a cui tu non mostravi.
Queste domande non hanno interrogativo
come le risposte che non…
detto‐non sentito‐non visto: differisce?

Non puoi saperlo il male che m’hai fatto.
Il male non si misura né si trasferisce
ma l’ho perdonato. Non perché fossi
un Gesù qualunque avvezzo all’altra guancia
piuttosto perché è difficile ad un uomo
riuscire a odiare chi s’è amato tanto.

E se ti sembran meno belli i versi
per via di inopportuni paragoni
pensa solo al tempo ch’è trascorso:
“mi hai fatto più male di tutti”.
“Sì”, ti schermisci e a ragione non accetti.
È ingiusto prendersi colpe per intero.

Difficile è spiegare la fine delle cose
come l’amore, che finisce e basta.
Se uno dei due non ama più abbastanza
l’altro non può dire: amerò io, per tutti e due.
La casa dell’amore non si fa da soli
altrimenti ha solo porte per uscire.