L'ipocrisia e il giudizio
La frazione era un pugno di case raccolte,
dove il cielo restava grigio
e le coscienze dritte come spine.
Si chiamava Neve:
non per l’intonaco spento,
ma per la polvere che copriva ogni segreto stanco,
ogni ombra lasciata a metà
sotto il peso di un’unica, rigida verità.
Le finestre — specchi senza pietà —
scrutavano la porta poco più in là.
Non si parlava di vento o di raccolti,
ma del passo di chi entrava
e di chi usciva
con lo sguardo già pronto a colpire.
Il pettegolezzo era mestiere quotidiano,
il giudizio l’unico vero conforto.
Tutti pilastri in prima fila,
avvolti di lana e reputazione immacolata.
La domenica,
un coro di voci devote
ripuliva l’anima da colpe remote.
«Basta la fede, basta la Chiesa» dicevano,
«basta un perdono che lava»,
mentre raccoglievano i vizi
nel cesto degli altri,
restando bianchi come calce fresca,
confessando peccati non propri
o già consumati dal pentimento.
Ma dietro le tende,
nel buio dei salotti ordinati,
giaceva un silenzio ostinato,
interrotto solo dal vero:
un errore che ancora bruciava.
Perché la confessione
non è mai assoluzione
se la coscienza è un foglio da riscrivere ogni sera,
e il peccato diventa un pretesto
per guardare il vicino un po’ più in basso.
Così vivevano,
chiusi nei loro muri,
con cuori di vetro e pensieri scuri,
attendendo un Giudizio
che non sarebbe venuto dall’alto,
ma dal giorno in cui avrebbero osato guardare
non più fuori,
ma il gesso sul proprio specchio
e la polvere vera
che li stava lentamente consumando.