A quattro mani

Si conoscono da anni. Cioè veramente è lei che lo conosce, perché lui in realtà passa da una persona all'altra con noncuranza, senza legami particolari. Ma anche lei dopo tanto tempo lo dà quasi per scontato, non ci si sofferma mai più di tanto. Anzi, a lungo andare lo trova quasi noioso. Oggi sono insieme, in una stanza semi buia, solo una sottilissima striscia di luce passa dalle serrande abbassate, poche possibilità di distrazione nell'oscurità. Lei si siede, attende, ha deciso di prestargli attenzione. Lui comincia. Inizio quasi banale, una domanda con voce infantile, ritmo monotono. Si risponde da solo, piccoli tocchi, come le pennellate incerte sulla tela candida di un pittore che ancora non sa bene cosa dipingere. E sempre lo stesso ritmo. Non si aspetta più niente di sorprendente lei, conosce tutto a memoria. Un'altra domanda, con timbro diverso, più sornione, più mellifluo. Un'altra autorisposta. E quella cadenza sempre inesorabilmente uguale, come soldati che marciano allo stesso passo. E ancora domanda. Lei sa la risposta, ma non riesce ad esprimerla. Quel ritmo... Comincia a confonderla, comincia ad adagiarvisi, a seguirlo troppo. Diventa incalzante lui, la domanda è più pressante, la risposta più struggente. Non è più incerto, è stentoreo, sicuro di sé, sa che la sta circuendo. Lei è preda dell'ossessione di quel ritmo immutabile. Cerca di concentrarsi sulla voce, e sente come dei flagelli che le arpionano il cuore e lo tritano, avverte come serpenti che le strisciano delicatamente e sensualmente sulla pelle, riesce a malapena a percepire che la ragione la sta abbandonando. Ghiaccioli le corrono sulla schiena, la inebriano completamente, l'emozione, l'eccitazione le salgono fino al volto. Il ritmo... Sembra più rapido, più forte, ma in realtà non è cambiato. Ora sta gridando, lui, ma non è un rumore fastidioso. È una corale, sembra una corale di pazzi che tentano di seguire le indicazioni del direttore ma vanno ognuno per conto loro pur cantando la melodia corretta. È quel ritmo, lei ne è certa. E' quell'ipnosi, quella pazzia progressiva e viscerale, che ormai sta per catturarla e dalla quale, sa bene, non c'è ritorno, almeno finché lui non avrà finito. E all'improvviso un urlo, un caos primordiale quasi pietosamente interviene ad interrompere, il ritmo si arresta. E il silenzio. E lei disfatta, tramortita. Lo sportello del lettore cd si apre con uno scatto perentorio, come a voler prendere fiato dopo un'apnea prolungata. Lei si alza e lo richiude di nuovo, forzando, come se quello si rifiutasse di sottoporsi nuovamente ad una tortura del genere, e vi si arrendesse solo perché costretto. E il "Bolero" riparte. E ricomincia tutto da capo. La cadenza nota lunga e terzine rullata sommessamente dai tamburi, che di lì a breve diventerà più prepotente. La frase/domanda proposta dal flauto, semplice e bambinesca, gradi congiunti e piccoli intervalli. E poi la ripete il clarinetto, più smaliziata, il fagotto, un po' annoiato, il corno, la corale degli archi, esasperata, e l'intera orchestra. Unico tema melodico, unico ritmo. Dal rassicurante pianissimo al passionale sforzato. Diciotto volte, una diversa dall'altra anche se apparentemente uguali. La marcia, identica e martellante, una specie di continua mitragliata, la tensione, le sensazioni, la lucidità che piano piano ti lascia,  l'impossibilità di analizzare  criticamente questo pezzo come un brano musicale qualsiasi. E l'ultimo, violento accordo  leggermente trattenuto,  simile ad un colpo di clacson che finalmente ti risveglia e ti riporta alla realtà. E il precipizio sulla tonica, secco. E poi silenzio. E poi questa pagina, composta e firmata a quattro mani, la melomane Alessandra Lamboglia ed il genio Maurice Ravel.