A quei tempi

A quei tempi l’acqua non esisteva. Alla mattina ci si sgranchiva e in cucina si prendeva una tazza di latte. D’inverno era bello stringere la tazza perché ti scaldava le dita. Dopo colazione si andava in bagno di corsa – siccome era tardi – e ci si lavava i denti col vino. Alle otto eravamo tutti seduti davanti alla maestra che una volta ci aveva insegnato come il mondo fosse fatto per oltre due terzi di vino, e che anche il nostro corpo è fatto di vino, e per oltre due terzi!
Al suono della campanella scappavamo dall’aula e facevamo un sacco di giochi: il mio preferito era "guardie e ladri". Mi batteva forte il cuore mentre aspettavo di fare tana ma il momento più bello era la ricreazione: quando in cerchio mangiavamo la merenda bevendo del vino. A mezzogiorno e un tot la scuola finiva. La mamma mi portava a casa in macchina muovendo il volante e arrabbiandosi, e un giorno di maggio scoppiò a piangere davanti a un incrocio. Non ce l’aveva né con il semaforo né con nessuno: purtroppo voleva dirmi che il papà stava male, che gli era venuto un nodo al sangue.
“E non possono slegarlo?”, le domandai.
“Ci hanno provato”, mi rispose asciugandosi il naso con la mano che poi strofinò sui pantaloni, “ma alle infermiere si sono spezzate le unghie”.
Non ricordo altro di papà.
I compiti li facevo nelle prime ore del pomeriggio perché poi non riuscivo: il vino era la vita ma ti veniva sonno a berne troppo. Il libro di scienze sosteneva la teoria che nell’universo esisteva un pianeta di tizi simili a noi ma fatti di un altro liquido anziché vino. Secondi alcuni artisti era una cavolata da astemi: lo sanno tutti che nel vino c’è la verità perciò insomma, la storia di alieni fatti di acqua è falsa come la matematica.
A diciotto anni avevo deciso di fare l’artista e la prima cosa che scrissi era una poesia: avevo appena scattato un paio di foto mentre tramontava il sole, che aveva smesso di scaldare il soggiorno ed era ormai arancione. Il palazzo di fronte al mio aveva cambiato colore: da bianco a marrone in modo da sembrare un castello così quando tornai al tavolo, con una strana sensazione tra il felice e il malinconico scrissi:

Nel vino c’è la verità.
La bellezza è verità.
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Nel vino c’è la bellezza.

L’anno dopo, il telegiornale della sera diffondeva la notizia che un inventore del mio paese aveva costruito l’Aggeggio capace di sapere esattamente la data di scadenza delle cose. Tu mostravi un pacchetto di wurstel all’Aggeggio che a sua volta ti avvisava – con un bellissimo accento metallico – sugli anni i mesi i giorni di vita che rimanevano ai wurstel. E se tu dimenticavi i wurstel fuori dal frigo la loro aspettativa di vita calava di colpo.
All’inventore del mio paese – diventato il più famoso della nostra storia – si aggiunse un team di scienziati e ingegneri per costruire un prototipo dell’Aggeggio ma di dimensioni colossali, in modo da sapere quanto rimaneva da vivere al mondo. Due anni di lavoro sia di giorno sia di notte e proprio di notte scoprirono che il mondo sarebbe morto a metà settimana.
Quella notte suonarono le sirene di emergenza dato che tempo da perdere non ce n’era. E la gente ascoltava la tivù piena di paura, tranne i vecchi che uscivano per le strade a cantare sotto i lampioni: erano felici di morire insieme al mondo perché non piace a nessuno andarsene prima che la festa sia finita: anche se la festa fa schifo ti rimane il magone. Gli altri si preparavano invece a disastri tipo quello del film "Dopodomani", e io dopodomani avrei avuto un esame di Storia della Filosofia.
La mamma in pigiama mi diceva di pregare, di chiedere perdono a Dio, che Lui così ci avrebbe indicato la via per salvarci e poi, non so quanto Dio ci abbia messo lo zampino e nemmeno so se Dio ce l’abbia, lo zampino, comunque con le speranze ormai sotto i tacchi ecco che un’enorme astronave era stata costruita e all’alba dell’ultimo giorno ci avrebbe portato in un altro mondo, un mondo più grande del nostro, fatto di acqua per circa due terzi.
A parte qualche animale un po’ rumoroso, il viaggio fu piacevole. Un musicista suonò una ballata strappalacrime in onore della vecchia patria: si intitolava "Il bicchiere della staffa". Io avevo venticinque anni quando atterrammo sul mare d’acqua: la navicella si sciolse e a nuoto raggiungemmo la Terra.
Si sta bene, qua. Siamo ripartiti da zero inserendoci tra la gente con cui tuttora commerciamo. Il sindaco mi ha chiesto di scrivere una poesia su Dio e sul vino (si dà il caso che sono diventato il poeta più famoso del paese, ho l’indipendenza economica e vivo vicino al mare, in un appartamento).
Mi ci è voluta parecchia ispirazione per scrivere quella poesia: ho bevuto da solo una bottiglia di vino camminando sulla sabbia a piedi scalzi, punto da conchiglie e ricci di mare. Indossavo una camicia sbottonata che l’aria gonfiava e sgonfiava e ascoltavo il rifrangersi dell’acqua, macchiando la camicia bianca con due tre gocce di vino ma continuando a sorridere. Il risultato è stato che in piazza ho letto la poesia stupendo tutti con una semplice parola:

Divino!