Ad ogni modo, non avrei potuto fare di meglio.

Il trillo del campanello mi ha svegliato come nemmeno la voce stridula di mia madre avrebbe potuto fare. Nel tragitto dal letto alla porta mi sono infilato un paio di mutande risultate essere, da esame più attento, di proprietà femminile non ben definita. Forse la brunetta del pub di ieri sera? No, quella era l’altro ieri. E con forte probabilità se n’è andata a casa senza mutande, considerato che ora le sto indossando io.
Il passaggio davanti allo specchio dell’ingresso mi rimanda l’immagine di uno scampato ad evento tellurico, o meglio, di una persona che non ce l’ha fatta a scampare.
Il campanello insiste, e libera altri decibel incazzati che come orda di cani da caccia si avventano sui miei timpani inermi. “Un attimo, echeccazzo!” strepito litigando con la serratura che non collabora.
Spalanco la porta pronto ad inveire contro la signora Maida, che a mattine alterne arriva dritta dritta dalla Moldavia per pulire la mia non proprio immacolata dimora.
Ma davanti mi si para un volto serio col ciglio arcuato, sopra un lungo collo stretto in un collare bianco su vestito blu scuro.
Don Parini. Merda. La benedizione di Pasqua. Il post it di Maida sul frigo, quello che ieri sera, rientrando, non sono riuscito a tradurre correttamente dall’ucraino: “signor Alberto domani mattina ale 9 don panini per pascua. Sue camice in armadio buonanote, maida”.
Dietro il prevosto ci sono, intimiditi e fuori luogo, due chierichetti femmina di otto o nove anni. Una, smilza e più alta, regge la borsa di cuoio del prete e accenna un sorriso interlocutorio. L’altra, decisamente più tracagna, arrossisce e sghignazza sotto la mano a cucchiaio.
Don Elio Parini borbotta un veloce “ma porporella, non si può farsi trovare così…” ed altre disapprovazioni di rito.
“Doon Pariniii!” approccio amabile coprendomi col centrino che mia madre ha insistito per piazzare sul mobiletto accanto all’ingresso, “…non l’aspettavo le chiedo scusa se mi dà un istante ma prego si accomodi guardi ho lavorato fino a tardi e non immaginavo…” sparisco seguito dalle mie inutili parole e dagli sguardi impietosi delle chieriche.
In camera afferro un jeans e mi sfilo le mutande: sono salmone con un fiocchetto di raso, a conferma della supposta provenienza. Ricompaio sette secondi dopo al cospetto del parroco, che ha già iniziato l’aspersione e la preghiera, come a dire che forse di lavoro, in casa mia, ce n’è parecchio.
Partecipo compunto, e, appena il curato mi dà le spalle, pugnalo le due serpi in tunica bianca con il peggiore dei miei sguardi: funziona, soprattutto la lungagnona abbassa gli occhi e ruota il capo verso la porta d’ingresso.
Don Elio ha finito, si scusa veloce per l’improperio di poco fa’ – “porporella”, ho sempre pensato che lo utilizzi per non dire porca puttana ‐ ma ieri ha fatto un giro preventivo per fissare gli appuntamenti per le benedizioni. “Sai”, mi confida abbassando il tono della voce, “se metto il cartello in bacheca non trovo mai nessuno, invece così la gente si deve per forza far trovare a casa!” e ghigna alla sua maniera, cioè con quella specie di sibilo risucchiato che lo contraddistingue.
“Bene” aggiunge sfregandosi le mani, “allora io vado”, altro sfregamento di mani, “stammi bene e riguardati” sfregamento più occhiata allusiva.
Finalmente capisco, e prendo il portafogli dalla tasca della giacca appesa lì accanto.
La sfiga mi accompagna, e dal borsellino caccio fuori un cinquantone pensando sia un deca. Il prete tanto caro l’afferra, ringrazia, benedice mentre lo maledico col pensiero, e mi maledice col pensiero mentre lo saluto. Si dilegua giù per le scale seguito dalle monachine.
Chiudo con delicatezza la porta, e comincio a smadonnare con molto rispetto: quando mi capita di farlo mi concentro sulla Ciccone, così ho l’impressione di peccare meno.
Avrò dormito due ore, la testa pulsa a ritmo house e non mi ricordo se la brunetta del pub era da me ieri o ieri l’altro. In più il corvaccio m’ha scucito cinquanta euro, per colpa soprattutto dell’erzegovina che non sa scrivere in italiano.
Un giorno o l’altro devo ricordarmi di chiederle da che parte dell’est è pervenuta.
Mi spoglio in vista di una benefica doccia calda, quando vedo accanto all’uscio la borsa di cuoio del prete, quella che reggeva la mingherlina. Dal vederla all’aprirla passano sei nano secondi: son curioso, lo so, me ne pento ama‐raramente. Scontato il contenuto: un vangelo consumato, un’agenda planning da discount, un rosario in un astuccio trasparente, un portadocumenti con la carta d’identità di Elio Parini stato civile celibe nato a Milano il 10\11\1947 e una cristallina contenente una decina di buste sigillate ognuna con un nome segnato sopra.
Fam. Valentini, De Valeri Carlo e fam. Soprani Diego, sig.ri Porta e Parola, Amelia Lorenzi.
I miei amati vicini di casa! Soprattutto la cara signora Amalia, che scuote il tappeto dove dorme il suo cocker, sempre e solo al mio passaggio sotto la sua finestra.
Che accelera il passo se mi vede arrivare e puntualmente mi chiude le porte dell’ascensore sul naso.
Che cuoce broccoli e cavolfiore ogni volta che ho una bella figa a cena.
Che mi legge l’estratto conto della banca e me lo rimette in buca rincollato.
Una simpaticona.
Apro la busta ancor prima che mi sorga un dubbio sulla liceità dell’azione. Cento euro! Cento euro con cui spera di comprarsi il paradiso, la vecchiarda.
Uno spermatozoo di diabolica malignità mi guizza nel cervello: anch’io da qualche parte devo avere la busta che il Don lascia nella buca delle lettere un paio di giorni prima delle benedizioni. La trovo, infatti, insieme alla posta che Maida mi ha lasciato in cucina.
“Ho guardato dentro ad un emozione, e c’ho visto dentro tanto amore, che ho capito perché non si comanda al cuoreee”  ricorro a Vasco mentre apro la busta dell’ attempata vicina, mi da’ coraggio “…e va bene così,…senza il centone” e modifico pure il testo ad uso e consumo della turpe azione.
Finisco di sigillare la nuova busta di Amelia Lorenzi, che ora contiene ben dieci euro, quando una doppia citofonata fa sussultare la mia coscienza. E’ la bimba brevilinea, per eufemismo paffutella, che mi prega di aprirle il portone “perché ha dimenticato la borsa di Don Parini”.
Ghigno come nemmeno il Coyote dei cartoni, e consegno alla piccola –si fa’ per dire‐ la borsa.
Ormai non ho speranza di riaddormentarmi, e tra un paio d’ore ho appuntamento con un cliente: tanto vale dedicarsi alla sospirata doccia.
Per niente pentito, e di tutto punto vestito con il mio completo D&G, scendo per le scale ancora prigioniero delle note del Vasco di poco prima: sento che mi tormenteranno tutta la giornata.
In strada esito un istante sulla soglia del portone: che sole, quello di aprile, ti chiude gli occhi e t’allarga il cuore: senza parole –Vasco!‐
M’incammino provando ad attingere mentalmente al repertorio di Toto Cutugno, ma non ho speranza.
Tre passi dopo mi ritrovo sotto la finestra della Lorenzi, che rispettando tempi cinematografici mi riempie di polvere, briciole e peli canini, scusandosi ad occhi allargati ed espressione rammaricata.
La bepparda terrorista. Il mio sguardo è un Kassam, la sua faccia la Striscia di Gaza.
D&G da millecinquecento euro iva esclusa. Sono proprio un pirla. Il prossimo completo lo compro all’upim e ci faccio cagare sopra i piccioni, ma almeno sul cartellino c’è qualche zero di meno.
Sono quasi arrivato all’ingresso della metro, quando sento a gran voce il mio nome. Mi volto e vedo il caro sacerdote che mi ha dato il dolce risveglio venirmi incontro.
“Don Pariniiii” enfatizzo l’ultima vocale smagliando un sorriso tarocco. “Tutto bene? Anche lei prende la metro, questa mattina? Chiedo, solo rallentando.
“Mi devi scusare, Alberto” ansima il tonacato (nel senso di tonaca) che è arrivato a passo svelto e mi si è parato davanti, “ma ti devo chiedere un favore”.
“Mi dica, Don Elio, se posso esserle utile….” Rispondo, falso come uno swarowski di alluminio.
“i soldi che hai avuto la compiacenza di darmi questa mattina” dice armeggiando alla fibbia della borsa di cuoio, “dovresti mettermeli in questa busta” e mi porge appunto una busta bianca con il logo della parrocchia Sant’Ubaldo, e il cinquanta uscito dal mio portafogli.
“Sai, ho fatto così con tutte le persone che questa mattina hanno avuto la compiacenza di fare un’offerta” spiega abusando della sua parola preferita, “è per mia comodità, così non perdo i soldi e quando torno in canonica tiro le mie sommette!” e via con la risata‐risucchio.
“Ci mancherebbe nessun problema metto subito i soldi nella busta ….ecco a lei” e cerco di liquidarlo accennando ad andare.
“Caro il mio Alberto, potevo farlo io è vero, ma vorrei che sigillassi tu la busta, e ci scrivessi sopra il tuo nome: sai, le buste le apro insieme a Don Ernesto, il mio vice, ed alla signora Lorenzi, che da qualche mese ci aiuta a tenere in ordine la casa ed i conti, sai lei lavorava in banca prima di andare in pensione, e con i conti ci sa fare ci consiglia come fare per i versamenti alla missione in Brasile e bla bla bla…”
Black out. La notizia mi ha formattato il lobo destro del cervello, quello che stamattina mi ha spinto alla turpe azione.
La task manager della mia materia grigia mi avvisa che la facoltà di pensare non risponde.
Mi sale una sensazione di giorni della merla su per i polpacci, ma siamo ad aprile inoltrato.
Elaboro: la signora Lorenzi tra poco aiuterà il prete ad aprire le buste; la signora Lorenzi tra poco scoprirà che la sua busta contiene dieci euro anziché cento; la signora Lorenzi tra poco darà il via ad un’elementare indagine che risolverebbe anche il commissario Rex da solo e senza museruola.
Rielaboro: 1) scoppio in lacrime e confesso al Don quello che ho appena fatto: patetico e rischioso, quello spiattella tutto a mia madre. 2) lascio andare il caro ecclesiastico, lo seguo, e nel vicolo ombroso dietro la chiesa gli scippo la borsa travestito da diabolik: rischioso e patetico, il costume di diabolik è finito in lavatrice con le lenzuola a sessanta gradi, ed è uscito taglia diciotto mesi.
3) ritiro una discreta somma e m’imbarco sul primo volo per località ad almeno cinquemila Km: né rischioso né patetico, semplicemente costoso.
4) ‐e qui finalmente mi accorgo di essere rientrato in possesso di un minimo di autocontrollo‐ prendo tempo e invito Don Parini a bere un caffè.
“…bla bla bla per i bambini delle elementari, mentre per i più grandi finanziamo un progetto di più ampio respiro culturale, capisci Alberto?”  conclude il don mentre ascolto in religioso silenzio.
“E sì, ampio respiro...” rispondo fingendo di aver seguito le sue divagazioni.
“Don Elio, posso offrirle un caffè, vero? Non sarà di fretta, spero” chiedo accattivante e supplichevole.
Il pollo abbocca, per quanto bizzarra possa essere la metafora faunistica, ed entriamo nel bar di fronte.
Scorgo un tavolino libero nonostante l’ora, e mi ci proietto trascinando il prete per la tonaca. Nel frattempo i neuroni impazziti impastano nel mio cranio la materia grigia. Ho bisogno di un’idea, e subito.
“Macchiato caldo” ordina don Parini, “cicuta liscia” vorrei ordinare io, ma mi limito a chiedere un dek ristretto.
Nel frattempo s’accende una luce, e non è il cell in vibracall, ma un lontano barlume nel profondo del mio sconforto. “Don Elio, è un po’ che volevo parlarle, sa’….” esordisco fissandolo negli occhi con un certo magnetismo, “vorrei fare qualcosa di concreto per la parrocchia, che so, aiutare in maniera diretta, rendermi utile” continuo sempre più simile al serpente della sua bibbia.
Don Parini annuisce piegando la testa, le sopracciglia arcuate a sottolineare il suo apprezzamento. “Quindi vorrei proporle, se per lei va bene, si insomma, oggi che avrei la giornata libera –sei appuntamenti in fumo, porcaput‐ potrei venire io in canonica ad aiutarla con i conti, del resto sono sempre stato molto forte con i calcoli –debito di mate per cinque anni consecutivi, sorvoliamo‐ così lasciamo riposare la signora Lorenzi, sa’ stamattina l’ho vista lamentarsi per la cervicale, ma la povera donna non glielo direbbe mai….”
Don Elio mi spiazza, facendo una cosa che mai avrei pensato potesse fare in quell’istante di totale mia falsità: tira fuori il fazzoletto e si asciuga due lacrime. Poi deglutisce, e prendendo fiato mi dice: “Alberto, Alberto…io lo so, l’ho sempre saputo che sei un bravo figliuolo” –io ascolto, scendendo al livello escremento umano, in preda ad un crescente pentimento‐ “qualche volta hai un po’ perso la strada, ma sei veramente una persona speciale” –livello inferiore: escremento animale, ora il pentimento è totale, sto per confessare tutto‐ “…e non potevo credere a chi mi diceva di stare in guardia, te lo devo proprio confessare: non ho mai creduto alla signora Lorenzi quando mi
fermava dopo la messa, per parlarmi di come tu fossi maleducato, irrispettoso e‐secondo lei‐ addirittura drogato!”
In pochi istanti risalgo la china dei livelli‐escremento, sarà l’aroma del caffè che nel bar è molto intenso, sarà l’aria di primavera fresca e promettente, sarà che alla Lorenzi stavolta le trasformo il cane in poster.
Ed ecco che mi arriva la benedizione del prete: “ va bene Alberto, allora se posso approfittare della tua disponibilità, abbiamo ancora un bel giro da fare”
“Ma certo mio bel prete, ti bacerei in bocca” penso, ma dico soltanto” ma certo, don Parini, pago i caffè e andiamo”, intascando il resto.
Uscendo cedo il passo al sacerdote, con un sorriso dolce e persuasivo talmente scintillante da coprire corna e coda puntuta che, nel frattempo, mi sono spuntate.