All'ombra della morte (seconda parte)

... Cosa accadde quando l'eunuco mi comprò?
Perchè ancora mi duole pensare il passato?

...300 donne, rinchiuse in una gabbia dorata. Simili a rari uccelli esotici, a fiori mai visti.
E’ strano ricordare e descrivere cosa occhi profani possano vedere per la prima volta in quello che dall’alto appare come un immenso castello che si estende in orizzontale, con mille stanze.
Quello che nell’immediato colpisce è  che ancora oggi rimane in me, è l’intenso profumo che impregna l’aria, un misto di fiori, incensi, oli ed il caratteristico e inconfondibile odore dolciastro e acidulo della pelle delle donne.
Ci si accorge dei colori e del  lusso nella quale la maggior parte delle concubine vive percorrendo i vasti corridoi che ti addentrano dentro quello scrigno d’oro; colpiscono gli occhi come raggi di sole troppo brillanti, quelle pennellate sui muri così vivaci, quei decori così accesi da apparire irreali: le tende, i morbidi tappeti, i cuscini di seta, in ogni luogo dove si volga lo sguardo c’è qualcosa di luminoso che attira l’attenzione rapendoti in un vorticare di scintillanti bagliori, lasciandosi esausta e nauseata, insolitamente brilla.

E poi le voci, i sorrisi, gli sguardi maliziosi ed indulgenti delle donne che ti osservano, la loro invidia tangibile, la loro tendenza naturale all’intrigo e persino all’omicidio, visibili, vivi in ogni centimetro di quelle stanze. Loro soppesano con lo sguardo il tuo corpo appena giungi, giudicano, spiano, ridacchiano in un melodioso turbinio di lingue diverse.
Una sorta di malinconia sopita attraversa come trama invisibile le pareti, sfiora e colpisce le fanciulle languide sui cuscini di raso, tramite le note morbide di un'arpa o di un flauto, le colpisce tutte: cento donne e poi altre cento.

Alcune di loro erano molto belle, altre brutte, altre ancora mi apparsero come spettri nelle gonne bianche, ampie, con i calzoni pieghettati così diversi a ciò che ero abituata, coi turbanti di garza, le tuniche ricamate e i giubboni ornati di sciarpe multicolori e collane.
Mi addentravo sempre più nel cuore stesso dell’harem, ed un suono mi colpiva la testa sconvolgendomi, come una martellata pesante e senza pietà data da un fabbro ad un pezzo di metallo: il cigolio ed il tonfo sordo delle porte, alte quindici piedi e spesse un piede, che si chiudevano oltre il mio passaggio.

Accanto a me, con passo fermo, simile a quello di un uomo, camminava la kiaya, la governante dell’harem,  per scortarmi perentoria in quel mondo assurdo in cui ero stata catapultata: ella avrebbe avuto il compito di educarmi e rendermi una perfetta ed umile gedicli, una schiava, e più avanti forse una kadin, in attesa che nel tempo il califfo potesse notarmi ed eventualmente ingravidarmi.
Scoprii solo col passare dei mesi che senza neanche volerlo avevo oltrepassato il primo  problema di protocollo di quel mondo. Senza rendermene conto ero salita al primo gradino della rigida gerarchia che vigeva fra le donne dell'harem, non ne compresi mai il vero motivo, il perché di quel salto. Non riesco a spiegarmi tuttora come mai non divenni una semplice odalisca, una gedicli, un’umile addetta alle cucine, una schiava che serviva i pasti per le altre donne; non mi occupai mai del bagno e delle abluzioni delle concubine senza avere alcun diritto di parola nelle questioni. Io ero diversa.

Avevo l’età di una delle figlie minori del califfo, non ero giovanissima, ma la mia kouss era ancora intatta. Ero una vergine.
Proseguimmo. La kiaya mi accompagnò nell’hammam; fui spogliata da alcune donne e condotta nella prima camera.
Trattenni il respiro nel vedere l’alta cupola sopra la mia testa, dalla quale la luce scendeva attraverso centinaia d’aperture rotonde non più grandi del palmo di una mano.
Fui affidata a tre schiave che cominciarono a prendersi cura di me,  dopo aver tolto dal mio corpo ogni segno di peluria ed avermi ispezionato; stranamente non sentivo imbarazzo alcuno, ma provavo tremendo fastidio nell’attenzione morbosa che tutte quelle donne avevano nei miei confronti.

 Mi avvolsero in una leggera camiciola di mussola che non nascondeva nulla del mio corpo ancora acerbo, cosi simile ancora a quello di una bambina, poi senza alcuna fretta mi condussero nel primo calidario.
Vidi più di cinquanta donne presenti nella prima camera, alcune avvolte in morbidi drappi, altre no, ed il mio sguardo vagò a lungo su quelle figure così diverse che mai sarebbe parso possibile immaginarle. Vi erano matrone dalle forme opulente, alte, con occhi scuri, labbra tumide e narici dilatate, aristocratiche nei loro molli gesti, ed anche ragazze di pochi anni più grandi di me a quel tempo, dai seni alti e sodi, i busti allungati e le gambe simili a quelle di un’adolescente, ed altre ancora piccole e grassottelle con la figura, gli occhi, il naso e bocca egualmente tondi, infantili e rassegnate tanto da apparire simili a balocchi.
Tutte spettegolavano allegramente con occhi  astuti e capricciosi.
Mi condussero da una camera ad un'altra, dal caldo insopportabile alle vasche rinfrescanti, alle docce tiepide, al vapore che toglieva il respiro. Ero la loro bambola, il loro nuovo gioco, la novità straniera con la quale svagarsi un po’.
Passò un tempo che mi parve un’infinità mi vestirono con babbucce bianche ai piedi ed una tunica ricamata d’oro, sopra una camiciola di lino finissimo, mi sciolsero i capelli e li profumarono con olii poi mi diedero un piccolo copricapo rotondo ed aderente ricamato di perline. Mi sentivo una di quelle stupide marionette che addobbano gli scenari ed i palcoscenici per sollazzare la gente.
Ero frustrata e sconvolta e dentro di me infuriava una tempesta, i miei pensieri si scontravano con le idee e quando fissavo quelle giovani donne sorridenti immaginavo il loro viso putrefarsi e le loro ossa sciogliersi nel tempo, era un incubo melenso dalla quale non potevo uscire, volevo fare la carnefice, volevo essere il serpente che distrugge il nido,  volevo che gridassero di dolore e che fossero mortificate nel corpo e nell’animo, placavo la mia disperazione con la rabbia e restavo imperterrita, pietrificata, chiusa nel mio mutismo.
Da quello che potevo vedere, le altre donne, non soffrivano della loro condizione d’uccelli in gabbia, anzi ne godevano e se ne pavoneggiavano, trascorrendo mollemente le ore nel dedicarsi alla loro persona e nel rendersi migliori ed interessanti agli occhi del califfo, anche se le attenzioni di egli, probabilmente mai si sarebbero posate su di loro. Le donnine ci tentavano, ci speravano, vivevano in agognata attesa che un giorno il fazzoletto dell’uomo che deteneva il potere di vita e di morte, gli venisse recapitato o potesse cadere ai loro piedi innalzandole al rango di gozde per poter dunque passare una notte con lui.
Era la loro unica aspirazione, gongolavano nel tedio che sono certa mi avrebbe ucciso se solo avessi permesso ad esso di afferrarmi.
Barricata dietro il muro di silenzio eretto, decisa a rimanere in quello stato tutto il tempo che occorreva, almeno fin quando non mi fosse stata chiara la situazione, fin quando non avessi appianato le mie idee ingarbugliate e avessi deciso come agire in merito a tutto.
Non potevo far a meno di fissare con disprezzo tutte quelle figure femminili che da quel giorno nell’hammam per altri otto lunghi anni mi avrebbero attorniato, facendo in qualche modo parte della mia vita. 

Da quella  notte cercai  la maniera migliore per sentirmi viva in qualche modo e se questo implicava il farlo soffrire sarei diventata il loro strumento di tortura.
Non desideravo la loro gentilezza, né le loro attenzioni, né la loro eventuale amicizia. Volevo rimanere da sola.

La kiaya mi accompagnò in una sala ampia e lunga con finestre su entrambi i lati: al centro c’erano file di cassapanche dipinte. La luce penetrava in fasci obliqui dalle finestre e la sala era molto spoglia rispetto a ciò che gia avevo visto, il pavimento nudo; allo stesso modo c’era comunque il brusio di voci e lingue diverse che accompagnava ogni singolo metro dell’harem.
Ella mi portò in disparte e mi fece spogliare per l’ennesima volta, suo compito era valutare se la merce appena acquistata, se la kouss cosi preziosa, era realmente intatta o se chi aveva acquistato la mia verginità per donarla al califfo era stato raggirato.
Mi avevano comprato solamente per quel motivo, non importava loro se fossi stata sorda, muta, cieca o altro, sarebbe stato un particolare che avrebbe arricchito la mia persona distinguendomi dalle altre, ero come una bambola di quel raro materiale, il vetro, fragile e pronta a rompersi in mille pezzi, pensavano che fossi chiara e trasparente e riflettessi la luce, ma non sapevano, non potevano neanche immaginare che sarei stata per loro la rovina.

 

Una scheggia di vetro tagliente che nelle mani sbagliate poteva procurare enormi ferite. Dovevano solo prendermi, afferrare quel bicchiere che credevano di aver comprato per brindare ai loro successi e romperne il fragile stelo.
E se non fossi stata un dono interessante? Avrei potuto passare il resto dei miei giorni alle cucine come gedicli, finire in isolamento nel palazzo delle lacrime, essere condannata a morte, rimettermi semplicemente alle decisioni del califfo, di certo non sarei potuta trovarmi qui a scrivere.
Rimasi immobile durante quel contatto con la kyaya, assolutamente silenziosa e inerme, continuavo a fissare la sua nuca, come se non vedessi nulla, come se fossi distante in un altro luogo ed in un altro tempo, con rabbia crescente facilmente celata, mentre le  mani callose dell’anziana guardiana, mi frugavano in cerca di un piccolo difetto.
Quando ella parve soddisfatta ed annui a se stessa borbottando  in una lingua che ancora non conoscevo, fui  condotta lungo un ampio corridoio fino ad una stanzetta molto piccola e angusta e là giunta,  costretta a bere un intruglio nauseabondo, che  mi addormentò i sensi e la mente facendomi scivolare in un sonno agitato, ricco di suggestioni, visioni, ombre e paure.
Ne sono certa urlai, con quanto fiato avevo in gola, perché il dolore era troppo forte anche per la  mente ottenebrata, livido ed intenso come un tizzone di fuoco che brucia la pelle. Non potevo muovermi, cantilenai parole sconnesse per placare il dolore, come facevo da bambina quando mio padre sfogava su di me la sua collera,lentamente, qualcosa di comprensibile solo a me affiorava e poi sprofondava nel buio, fomentava e teneva viva la rabbia e la voglia di vendetta. Persi i sensi o mi addormentai, non ne sono certa. Tutto era nero e rosso allo stesso tempo e le voci, le voci di donna, che poi imparai a riconoscere una per una erano talmente lontane e confuse, vi era il  vuoto, ed il mio corpo talmente freddo  che pensai di stare finalmente per morire.
La campana di legno annunciò il sorgere del primo sole e in seguito di mille altre albe ancora, segnò il tramonto, scandì l’ora del pasto e quella della preghiera, delle fantasticherie e del coprifuoco, sempre alle stesse ore.
Tutti i padiglioni erano di legno dipinto con foglie d’oro e aperti al cielo, e le finestre si aprivano su splendide vedute. I cortili interni erano un’alternanza di luce e di ombra, di fontane, pozzi, sorgenti, orizzonti incorniciati dalla filigrana delicata delle finestre a grate e dalle porte ad arco. Gli alberi centenari, scuri cipressi e platani chiari, davano un’illusione di spazio, le terrazze ed i giardini e tutto intorno il mare, infinito, variabile, ad ogni momento del giorno e della notte, che cambiava con le maree, le ore e la luce… il mare, l’unico elemento davvero libero.