Gocce di Follia

Il pianista stanco, in un angolo del salone male illuminato raccoglieva da chissà dove grappoli di semiminime, suonando un tempo volgare in quattro quarti, silenzioso e lascivo, cangiante, come lo sguardo sfuggente delle zingare che ieratiche attraversano i viottoli dirette ai ponti silenziosi e bui, statue in movimento nella notte, per fissare le stelle e leggere in esse passato e futuro, danzando sui propri passi, col ritmo e il frusciare della notte.
Sulle dita dello stesso colore dei tasti pesavano i suoi cinquant'anni, tutti spesi alla ricerca di accordi imbalsamati e scomodi.
La polvere dei palchi dei teatri di mezzo continente si impastava, quella notte,  col suo sudore e con i suoi affanni, col pensiero di tirare avanti, ancora, per un’ altra notte e per un altro giorno; ogni ruga che solcava il suo volto, ogni goccia di sudore che imperlava la sua fronte portava con se un bagaglio di emozioni e sensazioni, egli portava scritta in faccia la tradizione della sua gente: artisti, pittori, danzatori, poeti, musicisti, una razza a parte la loro, con un linguaggio segreto e sensuale, conosciuto solo da chi dell'Arte fa la propria ragione di vita.
In un cono di luce, il violino suonato da un uomo alto ed emaciato, ricamava frasi che puzzavano forte di bassifondi,  di topi affamati alla ricerca di cibo, di sogni inquieti e passioni d’amanti, di sgualdrine sorprese agli incroci dai gendarmi della guardia, mentre cercano di smerciare le loro quattro ossa senza rimetterci.  La luna brillava sui volti scandalizzati delle signore in strass, con il volto reso bianco dal belletto e la sua luce si rifletteva su un paesaggio desolato di uomini e conigli, di piume e balocchi, felice solo di specchiarsi talvolta nelle lacrime incredule di qualche cuore affaticato capitato lì, senza sapere come.

Una taverna fumosa e raffinata, densa di aromi, di ricchi uomini di affari, viaggiatori, filosofi e nobili scapestrati, di prostitute sorridenti travestite da signore e di giovani donne perbene con adoranti accompagnatori.
Vi aleggiava un perenne brusio. Qualcuno sul proscenio cominciava  ad azzardare uno stentato passo a due, poco statico, diverso da ciò che alle corti si vedeva, più malinconico forse, più incisivo e madrigale.
La musica prendeva quota ed anche i figuranti, muovendosi giù dal palco, come marionette sino ai tavoli di scura noce, recitavano ormai da attori consumati. Una figura minuta e diafana, poggiava il proprio corpo al pianoforte in molle posa, cantando così della vita e dell'amore, della morte e della fortuna che rubiconda e grassa come una musa danza, sfiorando gli esseri, cambiando le loro vite d'un tratto.
I capelli chiari, sui quali danzava la luce del fuoco inondandoli di bagliori rossastri, erano raccolti sobriamente sul capo, le guance parevano pallide e le labbra schiuse nel canto, rosse come succose fragole, intonavano note prepotenti che si facevano strada sino alle orecchie degli astanti; ella muoveva  le mani, dinanzi a sé, come se disegnasse, accompagnando con le dita quelle note che distillate dagli strumenti fluivano come liquore che riscalda i cuori.
D'improvviso poi si sentivano giungere nuovi suoni, sembrava che l'orchestra volesse invertire la rotta e la musica ricordasse una bassa danza, morbida e sensuale, libera e provocatoria nei movimenti.
Le anime accartocciate dei musicisti si allontanavano definitivamente dalla palude dei luoghi comuni, delle assorte corti dei regni, dalla routine della vita, per infilarsi temerarie in quell’intricata foresta di note selvagge e invitanti. Delirante la donna con gli occhi socchiusi si scostava dal piano, dopo averne accarezzato i tasti, come un amante grata, sfiorando appena le mani del pianista, che con le sue tante rughe, avrebbe potuto interpretare suo padre nella scena della vita.
Attendeva il silenzio, lisciando con le mani esili, rami fragili pronti a spezzarsi,  l'ampia gonna di velluto, poi alzando il capo fissava gli uomini, i loro volti madidi e contratti nel seguire il piacere sublime della musica e cantava, fino a che la voce pareva confondersi in un tutt’uno con le note. E le donne... Oh le donne! Erano rose dall'invidia per i lascivi sguardi che i loro compagni rivolgevano verso quella Musa, Calliope che inneggiava la solitudine degli esseri, solitudine che erompeva tragica dal fondo di quella melodia senza speranza, invitandoli alla morte.
Intemperanza quella delle donna, che non permetteva a nessuno di nascere, né morire, un canto nel ricordo, un canto nel dolore, un canto di rabbia e sussurri.
Uno scroscio di applausi sulle note finali poi il silenzio piombava nella sua mente spegnendo ogni nota ed ogni pensiero e lasciando in ella solo il vuoto. Come una visione che si confonde fra i sogni e la realtà, inchinandosi al pianista e ai ballerini dai sorrisi seducenti, si apprestava a uscire di scena per ritirarsi come ogni notte, nelle sue stanze, poco lontane dal ricco locale dove uomini e donne, desiderosi di lusso e buon cibo, solevano ritrovarsi per innalzare le loro anime fra i fumi dell’alcool e delle erbe costose. Camminava tenendo fra le mani i fiori bianchi ed odorosi lanciati dagli ammiratori. Gigli, orchidee, rose che finivano sempre ad addobbare le sue stanze, perpetuando un rito privato della notte, in cui i profumi aleggiavano nell’aria, umidi e molli, pungenti se sfiorati con l'anima in profondi respiri.
Un sorriso malinconico, dipinto suo volto bianco, al pensiero dell’uomo che nella dimora l’attendeva...  Non avrebbe dormito da sola, dunque, quella notte.
Non più da sola, da quando era cresciuta e gli uomini erano entrati a fare parte della sua vita. Suo padre era girovago, un artista, egli trascinava con sé la figlia, fatina evanescente, dalla voce d’angelo, bambina dalle aggraziate movenze e dai sorrisi magnetici.
Portava in giro per il mondo, Andrej, la bimba e la viola, dalla cassa sempre lucida e dall’archetto perfetto, viola a cui sfiorava le corde notte dopo notte, come se godesse nel farla vibrare, come se quel suono l'appagasse più del calore di una donna.
Trasportate, come se entrambe fossero parte di un bagaglio troppo prezioso per essere lasciato in un posto fisso, in un luogo incustodito troppo a lungo.
Vissuti distanti, lontano dalle occhiate troppo insistenti dei curiosi, di chi chiedeva da dove quella bambina minuta e fragile, dalla bellezza acerba e dagli atteggiamenti da donna fosse spuntata, di chi domandava l’alchimia di come Andrej, uomo apparentemente insignificante da quella vecchia viola potesse trarre note così sublimi da far piangere le donne e irrigidire gli uomini. Eppure la storia era semplice, a grossi caratteri era stata vergata ed esposta in pubblica piazza con un inchiostro indelebile, priva di pieghe, calda e avvolgente come il velluto. Sua madre era bella, sottile come un giunco, superba e ricercata cortigiana nei palazzi dello zar Pietro I, la sua mente era evanescente, amava le belle cose, il lusso, gli intrighi , gli uomini ed i cavalli, che usava nello stesso modo, con essi correva, ed era tutto un gioco, un passatempo. Erano bastate poche moine, qualche sorriso in un frusciare di stoffe per l’affascinante e  silenzioso musicista di viola giunto a corte e Andrej irretito si scopriva, pochi mesi dopo, padre.
Troppo tardi per affidarsi alle erbe che prese in giusta dose, avrebbero fatto tornare  l’ammaliatrice come una vergine, troppo tardi per uccidere il piccolo frutto che lentamente cresceva nel suo grembo. 
Varyena è il nome di quella notte di passione senza amore. Ella pianse all’alba di una fredda giornata invernale venendo al mondo così fra le urla di maledizione della giovane madre.
La mente di Annabelle si sconvolse, ella che faceva della bellezza il suo sostentamento e la sua ragione di vita, non poté reggere la presenza di una ninfa, di una rosa che delicatamente si schiude alla vita, di una figlia che con la semplicità e l’ingenuità di bambina le aveva distrutto l’esistenza nello stesso momento in cui era stata concepita, su quel letto dalle lenzuola di seta dai mille corpi e dai mille nomi.
Corse, scappò via, fra le braccia di un amante per un ultima volta, verso quel fiume che sotto la sua finestra scorreva, così avvolgente, forte ed impetuoso, Annabelle in esso si gettò e nella follia del suo essere in un danzare di stoffe annegò, lasciando la figlia del suo dolore alla porta del musicista. Porcellana bianca Varyena con Andrej per padre e la viola dalle dolci note come irreale madre e compagna di gioco e vita.
Nessun altro al mondo  tranne loro due ed una sorella, scoperta per caso in una notte di pianto.
Kilena il suo nome, altera, superba, caotica, ma sempre sorridente, dolciastra e falsa come un liquore contenete veleno. Rise Kilena nella mente della piccola Varyena, quella notte, facendole raggelare il sangue, rendendola ancora più piccola ed inerme, ma dandole nello stesso tempo la forza, di non essere più sola, come un tarlo che scava nel legno, così giorno dopo giorno la sua voce si faceva strada nella mente della giovane, consigliandola, invitandola, ammonendola, cullandola nella sua pazzia. Volano gli anni quando si è intenti a conoscere così tanti posti e nomi che a stento la mente li contiene, le lingue dei regni si mescolarono con i colori delle città e i volti della gente di ogni razza e la musica solcava nella vita di Varyena e di suo padre, un percorso invisibile.
Artisti li chiamano alcuni, pazzi, molti altri. Sottile è il confine, tra l'arte e la pazzia. L’importante è per loro piacere e dar piacere, poco importa se tutto si mescola in un calderone di sensazioni.
Non importava se la voce di Varyena, unico dono datole dalla madre, affogata da anni nel fiume, veniva usata per irretire gli animi degli spettatori, catturandoli ignari rendendoli prede, prese alla sprovvista dai ladri, spogliate da ogni avere e da ogni pensiero.
Non contava se quella voce invitava gli uomini nel talamo solitario, donando loro attimi di pura gioia, estasi che raggiungeva il culmine in note troppo grevi e vibranti per essere ascoltate senza aggrottare la fronte e spalancare la bocca in un grido di piacere; era la sua vita, era la sua espressione d’Arte e lei di questo era certa. Disperazione, incarnata come amica comprensiva prima, come amante funesta poi,  aveva da anni preso con sé Andrej, fra le sue braccia rinsecchite lo aveva accolto,  aveva gettato la sua mente nello sconforto, rendendo l’uomo che un tempo era mite e affascinante nel suo silenzio, uno zingaro violento, un ladro di cuori, di denari e di donne.
Disperazione colpita dalla gelosia, aveva distrutto le note che dalla viola di Andrej scaturivano, incessanti come acqua di cascata, le aveva trasformate in cacofonia, in stridule urla di donna, in lamenti funebri ammantati di buio, fino a distruggere corde ed archetto e rendere il legno traslucido e profumato di cedro, in legna da ardere nel fuoco invernale. A tutto questo ed a molto altro Varyena pensava, percorrendo il viottolo che conduceva dalla taverna sino alla propria casa, camminando senza timore nella foschia notturna e gelida, distorta dalle luci calde che dalle case si riversavano in strada.
Era stata una donna senza cuore né pietà quando aveva lasciato il relitto di uomo in cui suo padre si era trasformato col passare anni, poco prima del suo ventiquattresimo compleanno.
Era andata via, lo aveva lasciato alla matrigna Disperazione, sbattendo la porta senza voltarsi indietro. Sentiva il bisogno di star sola seppur sola realmente non lo era mai, parte integrante di lei era ormai Kilena, gemella all’unisono, senza un volto e senza un corpo, viveva annidandosi fra i suoi pensieri, suggendo dalle sue emozioni e suggerendole quando occorreva emozioni e parole. Così anche quella notte, Kilena manovrava come fili di burattini i suoi pensieri e  le parole crudeli sfuggivano dalle labbra scucite, urlate ridendo al suo vecchio, la frasi danzavano solleticandole il palato, mentre le braccia si allargavano ampie in un gesto che diceva tutto e nulla,  non un invito ad un abbraccio, non un segno di addio; freddo e distaccato poi un ultimo bacio, dato con sdegno ad Andrej che con occhi lacrimosi la supplicava di non infierire ancora sulla sua condizione, di non gettare sale sulle ferite del cuore, di non andar via. Cancellato tutto, un colpo di spugna su una macchia di sporco e suo padre non esisteva più. Alla fine della strada Varyena giungeva alla sua casa volutamente silenziosa, priva di suoni e note che nell’aria si diffondevano, ricca di profumi intensi e colori sgargianti che stordivano i sensi inebriandoli ed invadevano lo sguardo in ogni stanza, colmandolo nella loro interezza. Chiudeva i battenti di ferro del portone, due giri di chiave, monotonia dei gesti, rabbrividiva per il contatto col freddo metallo poi lentamente  la lasciava scivolare nella piccola borsetta. Perpetuando le azioni, si avvicinava al basso tavolino di vetro poco dopo l’ingresso e su di esso riponeva la borsa, i fiori odorosi, che prima o poi avrebbero trovato collocazione in un vaso, poi poco curandosi di dove le vesti potessero andare a finire, con gesti lascivi e deliberatamente lenti, ad occhi socchiusi, si liberava dalle stoffe che le coprivano il corpo, spirito libero, fantasma della propria solitudine, conduceva se stessa in uno spettacolo privato, fatto per soddisfare la propria superbia. Varyena mormorava durante quei gesti simili ad una danza, lievi parole come battiti di ciglia, ali di farfalla delicate e allegre, spazzando via dalla sua mente ogni pensiero cupo, cullando Kilena nel suo sonno notturno, attendendo di essere semplicemente se stessa, dirigendo infine i suoi passi in camera dove il suo uomo, l’amante del momento, l’aspettava dormiente come ogni notte da mesi ormai, pronto a soddisfare dopo un bacio o una carezza, in un gioco lungo e complicato, i desideri di entrambi. ‐ Palpiti di cuore, desideri di piacere puro e senza vergogne.‐ Il sorriso stampato sul viso di ella che faceva capolino nella camera da letto, veniva accolto da uno sguardo furioso, un marinaio in calzoni a petto nudo, con una bottiglia di vetro contenente un liquido ambrato fra le mani e cocci di vetro sparsi per la stanza, bottiglie e specchi fracassati in uno scempio per gli occhi.
Lampi di rabbia vividi, dal volto paonazzo e dalle scure iridi dell’uomo che digrignava i denti farfugliando, la spaventavano ed un urlo muto e silenzioso, un appello mentale scaturiva sino alla sorella, a Kilena, affinché le desse in soccorso.
Irriconoscibile l'amante che, dinanzi alla Varyena nuda e pronta per egli, gesticolava urlando con voce impastata, annebbiato dal liquore bevuto in abbondanza e dal vino e da solo Dio sa cos'altro. Dolore sordo alle tempie, giungeva insieme ad uno schiaffo in pieno sul suo volto impietrito. In bocca solo il sapore del sangue, coscia di dolore, ed ebbra di follia, mentre le parole di Kilena sovrastavano i suoi pensieri turbinando, trasformandola in cagna rabbiosa. Un gesto, un insulto, un invito al massacro, Varyena sputava sul volto del suo uomo, saliva e sangue tentando di arretrare per cercare una via di fuga.
‐ Derelitta puttana a  quale demone ti sei donata? ‐
Livido di rabbia l'uomo afferrandola per i capelli nel suo fuggire,  senza scampo, la trascinava fra le lenzuola attirandola a sé, premendo il fragile corpo di donna contro il suo, contro il suo rozzo torace, torcendole le braccia fino a farla urlare.
‐ Guardami!‐ urlava strattonandola con più forza – Cupidigia degli uomini! Bastarda di una cortigiana ‐ 
Le sue orecchie venivano ferite con parole crudeli, mentre il collo dolendole, minacciava di spezzarsi sotto il peso delle mani di quel barbaro ubriaco, che con forza le stringeva la gola togliendole il respiro.
‐ Perché non canti più? Non vuoi cantare? Bella! Fremente! Luccicante  come un pugnale! Rosso sangue sulle labbra! Non mi hai amato, mai! MAI! ‐
Ubriaco fino al midollo, infieriva su di ella in ogni modo tappandole la bocca per non farla urlare nella ferocia della violenza, trasformando così il rito sensuale ripetuto ogni notte in qualcosa di disgustoso e ripugnante, soddisfacente per Egli.
‐ Addio, addio!‐ Vaneggiava ‐ Mia bella, mia cagna, mia puttana, questa sarà la nostra ultima notte d'amore‐
Le parole venivano biascicate nell’estasi del rapporto, alitate rancide sul suo volto. Varyena boccheggiava in preda all’asfissia alla ricerca d'aria accasciandosi poi semisvenuta, sotto il petto di egli, ansante ed appagato, pronto ad abbandonarsi al sonno, ristoratore ed amico.
Lunghissima la notte nella quale la tortura della vicinanza di egli pareva non aver mai fine, le ore trascorrevano fino a quando il sole tornava a baciarle le palpebre bussando con delicatezza ad una finestra schiusa.
Dolorante riprendeva i sensi, compiva movimenti lenti per non svegliarlo, le labbra serrate per evitare di vomitare su di egli tutto il suo odio.
Nuda e minuta, ascoltava l’idea sinuosa di Kilena farsi strada nella sua mente, con il sangue nelle vene che scorreva avvelenato di rabbia, con un requiem di morte nella testa, sovrastato senza controllo, dalla risata della sorella,
‐ Ha detto che è stata la nostra ultima notte Varyena, fate qualcosa.‐ “Qualcosa” Pochi secondi per pensare, ancora meno per agire, le sue tempie battevano come le  campane a morto della cattedrale, mentre affondava il coltello sul corpo inerme del suo amante marinaio, avvolto nel sonno. Una volta e poi un’altra, nuovamente senza pietà, infierendo e colpendo un corpo che sentiva come se fosse suo, un corpo che nei mesi aveva imparato ad amare e venerare dimenticando la solitudine, un brivido, un sussulto, poi la macchia rossa iniziava ad allargarsi sulle lenzuola.
Rideva mentre il volto dell'uomo si contorceva in un ultima smorfia di dolore, ed egli spalancava gli occhi, come se non se l’aspettasse quel gesto dal suo angelo dai capelli rossi,  dalla sua Varyena che seduta su di un angolo del letto lo guardava morire sorridendo, mentre le lenzuola divenivano porpora.
‐ La nostra ultima notte... ‐
Attimi che parevano ore, nel silenzio alzandosi, per l'ultima volta sfiorava il corpo di egli ormai freddo e distante, devastato dalle lame. Tutti presto avrebbero saputo, ma poco importava.
Ella non ci sarebbe stata più. Fuggiva, correva via lontano.
Non più dalle sue labbra le note struggenti, non più la sua voce cristallina nel canto sarebbe risuonata, morta Varyena nella sua gola, con i singhiozzi repressi del suo conturbante pentimento quando Kilena tornava a scivolare nel sonno.
Tutto il passato serrato nella sua mente, richiamato alla vita a volte, da quella  sorella amica e priva di sentimenti. Avvolta in scure vesti, come vestita in perenne lutto, evita di mostrare il suo volto, la sua tristezza o il sorriso che affiora sulle labbra piene al ricordo di quella notte, lo sguardo ammaliante e disincantato di chi rimane comunque un'assassina. Nuova adesso è la città, Venezia, lussuosa ed umida. Perfetta, dice Kilena, per confondersi fra le nobili e le sgualdrine, fra le lavoratrici oneste e le ladre, per vivere nutrendosi delle storie degli altri, farle proprie e recitarle in lei.
Così Varyena  acquista mille volti e mille nomi, di tutti quelli che conosce e sfiora, apparendo così come un artista di strada, come una nobildonna, incomprensibile e strana, come una donna senza passato, come una amante, una madre, una sorella e una figlia che chi ha dinanzi ha sempre desiderato, ma non ha mai avuto.
Si mostra così dunque: ‐ Sola, nuovamente per Vivere.‐