Alla signorina Caterina

La gatta andava curiosando sopra il davanzale della finestra. Gusci rotti di noce e pezzi di cannucce grigie. Ogni tanto partiva un colpo di tosse dal piano di sotto; è il vecchio Argutti, che a quest’ora incomincia le repliche della sua bronchite.
Paolo restò fermo, la penna sollevata in aria, fin quando non si decise e scrisse concitato due parole; piegò il foglio in quattro parti, e lo nascose nel fondo del portapenne.
Ne prese un altro, meno sgualcito, lo intestò col suo nome e cognome, e prese a scervellarsi non poco.
“Tu mi fissavi…Caterina, nei begli occhi fissi leggevo il tuo sgomento indefinito…”; no, no, ancora non ci sono, bofonchiò tra sé, poggiando lo sguardo sul profilo della gatta immalinconita, che giocherellava insistente fra i gusci.
La prese sulle braccia e le cantò la strofa di una canzoncina che gli aveva insegnato nonna Cinzia: “ Oh quante bele fije, Madama Dorè, oh quante bele fije! Cosa ch’it veule fene, Madama Dorè, cosa ch’it veule fene?” Stese la gatta nella cesta, dove cinque esserini senza pelo, le si mossero incontro molleggiando le zampette.
Paolo fece ritorno alla scrivania, col viso più alleggerito. Tuonò una pedata contro il pavimento dabbasso, e la tosse del vecchio Argutti scemò d’un botto.
Tagliò quei versi che non lo convincevano più di tanto, e ristabilì la penna a mezz’aria, levando il gomito con un colpo secco.
Sua madre lo ritrovo così, che si erano fatte le nove del mattino. “Paolo, Paolo” lo andava richiamando mansueta, “il caffelatte, è in tavola”.
Paolo disegnò un cerchio in aria con la penna, e affisse un invisibile punto al centro.
“Quanti anni ha, Totò?” proruppe Paolo con voce astiosa.
“Oddio, ricomincia”.
“Quanti anni ha, bestiaccia?”
“Io non lo so, ma…”
“Bene, te lo dico io; ha venticinque anni. E come si chiama la sua bertuccia?”
La madre oscillò la testa, mentre le guance le erano diventate più rubizze.
“Non…”
“Makakita, Makakita, cosa c’è di difficile, eh?” Nel lanciarla verso la madre, la penna urtò contro lo spigolo dello scaffale più in alto, per ricadere poi a strapiombo dentro la cesta dei gatti.
“Madama Dorè, oh, mi scusi, non l’ho fatto apposta” corse a dirle Paolo, vistosamente agitato. Mamma Deciani era già sparita dietro la porta.
Caterina diede due colpi di mano all’uscio. Tacque. Ne diede tre. Sempre silenzio. Poi fece tintinnare mezzo secondo di campanello; a quel punto mamma Deciani corse ad aprirle.
“E il segnale?”
“ Non oggi, Cate; vieni, entra, è così peggiorato.”
Caterina e mamma Deciani appostarono le loro orecchie dietro la stanza di Paolo.
Caterina fece un cenno a proposito di una clinica venariese, dove avevano riabilitato il cugino di un collega dell’ufficio da una grave forma di schizofrenia.
Mamma Deciani, dopo averla ascoltata con cura, provò ad abbassare la maniglia della porta.
“Paolo, guarda chi è venuto a trovarti”.
Paolo notò subito chi era. Gli bastò aguzzare gli occhi, con quel tanto di sforzo che gli permettesse di scorgere una seconda sagoma femminile, dietro la vetrata trasparente della porta.
“Non farla entrare, no; cosa stai facendo, bestiaccia.”
La madre fu respinta indietro, come dal rinculo di una cannonata.
“La lettera non è ancora finita, Caterina. Scusami, è che…mi si sono rotti gli occhiali e scrivo più lentamente. Ma vedrai, la finirò presto e… poi ti porterò a leggerla sul cocuzzolo del sagittario, ok, sì?”
Caterina rispose di sì, ma non per questo Paolo acconsentì a farla entrare.
“… non è il caso, mi rimetto al lavoro.”
Mamma Deciani era già con la cornetta in una mano e, nell’altra, una sequenza di fogli fascicolati.
“È stato già ricoverato, per otto mesi, all’istituto Cerri di Alessandria. Ho tutta la documentazione, sì.”
Caterina stese la mano aperta contro il vetro della porta di Paolo. Poteva sembrare un addio, cui Paolo, immerso in una pila di fogli bianchi, era sul punto di seppellirne i resti.
Faceva caldo dentro lo stanzone al terzo piano. Lì, membri della direzione dell’istituto tenevano colloqui faccia‐a‐faccia con i degenti, ricevevano le famiglie e le aggiornavano sulla situazione in corso.
Paolo si stava tergendo la fronte con una spugnetta color prugna imbevuta d’acqua fredda, quando la porta arrugginita si aprì dietro di lui, imitando il rombo di un cerchione staccato.
Entrò Irma Laudana, una delle psicologhe pro tempore, di turno all’ospedale.
Non appena la vide entrare, Paolo si levò dalla sedia e la fece accomodare al posto suo.
“Sei gentile, ma c’è già la mia sedia, qui.”
Irma parlava con un forte accento del sud, un misto tra dialetto pugliese e qualche idioma siciliano. Nel frattempo, Paolo si era riaccomodato al suo posto, aveva gettato nel cestino la spugnetta insudiciata e aspettava che Irma gli rivolgesse una parola nuovamente.
“Paolo, so che ami scrivere, non è vero?”
Aspettò prima di risponderle; sembrava volesse tenerla sulle spine.
“Non mi rispondi? Riservato come uno scrittore, eh? Tua madre mi ha fatto leggere certe tue composizioni. Sei pieno di talento, sai.”
A quella frase, Paolo la guardò stizzito. Si fece portare un bicchiere d’acqua e una cannuccia, rigorosamente grigia. Poi, Irma gli sorrise e lui rispose con una linguaccia che la fece un po’ arrossire.
“Tu sai per caso… “ cominciò Paolo “cosa ci faccio qui?”
Irma non replicò a tempo e lui continuò:
“No, perché avrei certe cose da fare. Dare l’acqua alle begonie, aspettare Marcolino che mi fa ciao al balcone e poi, poi devo concludere una lettera. L’ho promesso.”
“Ti va di dirmi per chi è questa lettera?”
“Per Caterina.”
“È la tua ragazza?”
Paolo sorrise ingenuamente.
“No, è la donna di servizio diciottenne. Abita sopra casa nostra e la sera, quando può, scende a trovarmi.”
“Ah sì? Sei sicuro che non hai una sorella che si chiama Caterina?”
Irma trascrisse la conversazione su un paginone pieno di timbri.
“No, mia sorella è morta quando io ero piccolo. Caterina è la domestica, è bella e scende a trovarmi.”
Irma tirò fuori da una valigetta scura alcuni fogli A4, che contenevano tante frasi scritte trasversalmente, con una calligrafia difficilmente leggibile.
“Vuoi leggermi questa, se non ti dispiace?” gli chiese con fare amichevole.
Paolo prese in mano il figlio e ristette con la testa china sul tavolo per qualche momento. Bevve due sorsi d’acqua dalla cannuccia e cercò di modulare il respiro di modo che la sua voce fosse piena di vigore.
“Totò Merumeni è il personaggio di una creazione, non un affare mio. Ma delle volte c’incontriamo sopra i tetti, ci arrampichiamo alle grondaie e lanciamo ghiande al crepuscolo nascente. Ha quasi la mia età, è innamorato, eppure non lo sa; preferisce sostare sulla facile erba, cantare sotto il pergolato le canzonette della nonna, piuttosto che aprirsi all’aspro vento della sua età.”
Una lacrima parve a Irma quella che luccicò sopra il ciglio destro di Paolo. Sì, non una goccia di sudore improvviso, era una lacrima piena, rimasta appesa a scintillare.
“Ecco, ho letto; posso andare adesso da Madama Dorè?”
Irma ebbe un sussulto di molle tenerezza.
“Vai, se vuoi; ti faccio il numero di casa.”
Caterina tornò ad abitare al piano di sotto. Accettò di non essere più sorella, ma di fare la domestica a tempo pieno.
Andarono insieme sul cocuzzolo del sagittario; Paolo le lesse la lettera intitolata “Alla signorina Caterina, ovvero la mia realtà”.
Si tennero abbracciati per un po’, dopodiché Paolo le chiese a un orecchio:
“Ho voglia di pollo alla marengo. E tu?”
Mamma Deciani imparò il nome di Makakita e rispose sempre più prontamente alle domande del figlio. Paolo smise di chiamarla bestiaccia.
“Gli anni di Totò?”
“Venticinque.”
“Cosa invia all’amico?”
“Un cesto di primizie.”
“Un giorno è nato…”
“… Un giorno morirà.”