Amo

Un pesce catturato all’amo che dice la sua, come viene catturato e sottoposto a tortura (in prima persona, prima di morire).

L’acqua cela un mondo meraviglioso in continuo movimento, bisogna penetrare questo ambiente, dove, nascosto agli occhi umani, vivono i pesci nel loro elemento naturale.
Noi pesci sappiamo cosa preferite, le vostre abitudini, mentre lotteremo con tutte le nostre forze e, nonostante l’intelligenza e l’astuzia, periremo. Siamo destinati a morire perché ci offrono quello che più ci piace: il cibo della sopravvivenza.
Non solo qualche inesperto abboccherà all’amo; la gioia enorme dell’assassino che ci considera prede, lo stesso essere umano che ci ritiene avversari, con cui dobbiamo lottare per il gusto di catturarci, neanche più per sfamare qualche povero cristo, solo la fortuna di slamare ci può aiutare. La lotta si fa ardua e spesso la perdiamo, direi la maggior parte delle volte. Stagni, morte, fiumi, torrenti, canali, bacini e mari; acque vive, moderate e calme; periodi di piena in primavera e autunno, di magra in estate e inverno; fondo arenoso, ghiaioso, pietroso, melmoso, terroso, roccioso; acque sane, pure.
A poco a poco che la luce dirada siamo costretti a cacciare anche di giorno. Per il fenomeno della stratificazione inversa, la temperatura non ci fa mai morire, nonostante l’acqua ferma ghiacci, ce ne stiamo buoni sotto lo strato superficiale nelle acque profonde perché raggiunge i quattro gradi centigradi; col caldo manteniamo sempre sul fondo le esistenze, in profondità la temperatura è sempre costante. Ci cercano con gli ami le esche nelle prime ore del mattino e al tramonto durante l’estate.
Sentiamo la pressione atmosferica, quando è alta il nostro appetito aumenta, mentre la repentina diminuzione ci rende particolarmente nervosi. Mai cercarci col mal tempo, però subito dopo il temporale o con le piogge moderate, quando voraci troviamo più larve e cibo mossi dall’aumento dei flussi e dimentichiamo l’abituale diffidenza. In autunno diventiamo addirittura famelici, pronti a resistere all’inverno dobbiamo sfamarci.
Proprio io, porca miseria, dovevo cadere in trappola di un’esca artificiale. Giuro, sembrava vera e ci sono cascato in pieno. Una camola, maledetta. Amo dell’uno, bello grande. D’altronde, io sono bello grosso e ci sono caduto come… un baccalà! All’inizio aspirai l’esca, insospettito, in un primo momento la rigettai, poi la ripresi, come uno stupido. A quel punto venni ferrato e non potei più tornare indietro. Il dolore. Il dolore che provai subito, immediato, una stilettata terribile nella mia bocca, dentro, in gola. Una forza, una forza incredibile mi spostava facendomi sanguinare, strappandomi le carni e ancorandosi sempre più in profondità. Svicolai verso il fondo cercando di raggiungere le alghe, sentivo che qualcosa cedeva, nel meccanismo che mi tratteneva, vidi un ramo, cercai di avvolgermi quasi roteando, ma non ci riuscii, qualcosa mi portava fuori, verso la superficie, addosso al nemico che immaginavo lassù. Neanche fossi una cheppia e le mie carni fossero di cattiva qualità. Non lo so io, come mai noi di questa specie siamo talmente richiesti. Ma come essa, anch’io sono un incredibile combattente e oppongo strenua resistenza alla cattura una volta abboccato.
Dopo una precipitosa fuga risalgo la corrente, compio salti vertiginosi fuori dall’acqua. Ma non sono riuscito a sganciarmi, accidenti. La mia bocca molto dura resisteva. Intravidi una sagoma, un’ombra e una specie di asta che si muoveva davanti a me, lontano, sulla riva. Ero abbacinato dal riflesso del sole. Tornai a immergermi, sempre più in profondità, sentivo il sapore del mio sangue e lo strattonare del filo diventare intenso, insopportabile; mi avvicinavo alle alghe e rotolai come una palla, preso dalla corrente. Non avevo idea dove mi trovassi, tutto sembrava in continuo movimento, venivo trascinato dove non volevo, strisciavo il mio corpo tra le rocce e le sabbie, vidi altri pesci allontanarsi impauriti, alcuni più grossi e grandi di me avvicinarsi, nello specifico caso mi lasciai trasportare dove l’essere umano voleva portarmi, pur di evitare quella morte, di finire nella bocca di qualche pesce vorace. Uno tentò di mordermi e mancò poco ci riuscisse. Potevo sempre sfuggire la morte, magari venivo catturato per poi essere liberato, quindi speravo che l’uomo non fosse così cattivo, forse brancava le sue prede per poi ridare loro la dignità che spettava come diritto di vita. D’altronde, era puro sport per alcuni pescatori prendere un pesce, per dopo ridargli dignità e rimetterlo in acqua, la sfida era vinta, non bisognava uccidere e mangiarlo, quel pesce. Speravo, appunto, che anche per me sarebbe stato così. Magari.
Insomma, arrivai stanco e spossato alla riva, già non respiravo bene quando il maledetto mi colse, afferrò le mie branchie come fossero pietre e accarezzò la mia bocca simile al velluto per paura di beccare l’amo e ferirsi, mentre io mi dimenavo. Soffrii terribilmente quei pochi minuti all’aperto, desideravo finisse tutto quanto prima, quindi sperai. Cosa sbagliata, sperare, con gli esseri umani. Il gancio uncinato me lo estrasse come togliere un tappo dalla bottiglia, voi umani in Paradiso mi avete insegnato come si fa, strappò senza farmi male con delle forbici apposta per la pesca e mi mollò dentro un secchio assieme ad altri miei simili morenti. C’era un po’ d’acqua e si riusciva a sopravvivere, non so per quanto ancora lo saremmo stati, sopravvissuti intendo. Poi il sole calò e, come nel Getsemani ‐ anche questo me l’hanno insegnato le anime umane in Paradiso ‐, percepii il vero odore della morte. Mi sollevò con le sue mani guantate, per non sporcarsi e non farmi scivolare.
Vidi, vidi! Prese la mira e con lo stesso arnese con cui mi aveva slamato colpì la mia testa una, due, tre, quattro volte. Alla seconda ero già morto. Il resto lo osservai dal cielo, come mi portò a casa e in cucina mi eviscerò, tagliandomi la testa, pulendo per bene le mie scaglie con un coltello e liberando la mia carne da tutte le interiora e i rimasugli. Mi passò sotto l’acqua corrente, mentre il sangue defluiva diluito nello scarico. Preparò il mio corpo a fettine e lo congelò.
Non sapeva che, aprendomi dopo un mese da lì, fatto scongelare e mangiato fresco, avrei sterminato con le mie tossine tutta la sua famiglia.
Buon pranzo.