Annadelmare del sì

Annadelmare del sì
... Era colpa mia. Sicuramente avevo inquinato la sua vita e lo avevo ucciso.La tata mi guardava con muta comprensione, ora so che lei sapeva. Tutto.Allora il suo sguardo lo sentivo addosso come affetto per una bimba indifesa che cresceva in silenzio, nel silenzio di una famiglia bella e ricca. Ora sono certa che era così... Le nostre vacanze coatte; ogni fratello nuovo, uno dei fratelli vecchi aveva vitto e alloggio e divertimenti in una località amena, la casa in campagna dei nonni, dove l’inverno, quando scende la neve, regala la gioia dello spettacolo dei bucaneve che spuntano con coraggio da piccole buche nere in morbido contrasto con il manto immacolato.Il coraggio dei bucaneve io non l’ebbi mai, né in quella casa in un luogo ameno, né nella mia casa di bouquet di ceci, né quando fui donna; e crebbi, bambina sempre più taciturna e trasparente, volli divenire io stessa il nascondiglio di me. Mi cancellavo.Non mancavo di ritagliare la mia fetta di tempo da vivere in uno spazio di silenzio dove muta dialogavo con i colori e i pennelli su bianche tele tese ad ascoltare la voce della mia anima, e con chilometri di fogli dove crescevano come verdi prati le parole del pensiero.Dimenticai le “capanne” di mio nonno e le punizioni di mia nonna, dimenticai la loro casa, né tornai mai in quella bucolica cittadina che mi aveva insegnato come uscire dal corpo e guardarmi a distanza. Partecipavo a scorribande e risate, ma quanto usciva dalla bocca non venne mai dall’anima, decidevo con la testa le mie emozioni, mai avrei mostrato tristezza, la tristezza è debolezza, e io non volevo vestire il personaggio della muta donzella bisognosa di attenzioni, sapevo che non sarebbero mai venute e se mai fossero arrivate mi avrebbero ferita. Avevo trovato l’antidoto: l’allegria e l’ironia e con esse il modo di preservarmi da eventuali contatti...e appena il mio cuore cantava ritmi veloci e gioiosi, fermavo la musica...
Sei bella, mi diceva ed io sapevo che mentiva, sei bella mi dicevano gli altri ma io conoscevo già com’è bugiarda la grande menzogna, conoscevo più di tutti che la parola è l’artefice del gioco della falsità.Incontrai un musone dagli occhi nascosti da lenti nere e gli abiti neri e gli stivali neri; decisi di innamorarmi dello straniero misterioso, ci misi poco a inventarmi l’eroina di un romanzo d’appendice, gli elementi c’erano tutti. L’uomo nero era aggressivo, ed io mi sentivo un giovane leone finalmente; odorava di maschio e di whisky, niente profumi di lavanda fresca dei miei amici e della mia infanzia, niente genitori a seguito a pretendere silenzi; lui era diverso, suonava la chitarra e creava canzoni, lui era l’immagine vivente di una dimensione fino ad allora lontana dalla mia portata, era un misogino, era il mistero. Era il buio che in forma diversa già conoscevo, era il buio che volevo incontrare in un altro essere per sprofondarci, forse per morire o forse per raggiungere quella lucina che poteva portarmi alla resurrezione. Entrai nella sua casa un giorno e concepii l’amore dolore e, così lo descrissi nel mio diario: “un cantautore ha bisogno della sofferenza per produrre; il suo annichilimento è provocato volontariamente per vivere emozioni forti; lo struggimento, il pianto, la disperazione, sono emozioni forti che creano l’arte, per contro la gioia è leggera e non fa piangere, quindi l’isolamento e l’intontimento con alcool o droghe, la ricerca e il contatto con la morte. Il fascino di una stanza in disordine, la bottiglia di vino quasi vuota poggiata sul pavimento e più in là un bicchiere sporco e poi un altro sporco e vuoto, la chitarra abbandonata sul letto sfatto che lascia intendere forse una notte d’amore sofferente o forse una notte insonne. Odore di stantio nell’aria, sei davanti ad un sipario chiuso che tenta la curiosità di entrare in un mondo misterioso e svelarlo, il desiderio piangente di farsi penetrare da quel dolore che aleggia fra i muri, il bisogno di empatia”.La trappola era scattata. Io, ero in trappola. Mi aggrappavo a sogni romantici per sfuggire alle fauci della realtà oscura che pure restava adagiata sul fondo della mia anima e che io, inconsapevole cullavo come madre amorosa, sorda e cieca.Mia madre non cantava più con la sua voce limpida e le sue risate erano meno argentine, un giorno mi confidò di avere appena abortito, non voleva quel figlio, aveva quarant’anni ed io stavo per lasciare la casa natia per sposarmi contro le implorazioni di mio padre e mio fratello. Avevo deciso di imporre per la prima volta nella vita il mio volere e mia madre mi sostenne, ed io spaventata dalla mia paura del vivere, chiusi gli occhi e spiccai il salto nel vuoto.Mi sposai.Avrei voluto indossare un abito speciale per il mio giorno speciale, sognavo l’abito della prima comunione di organza e pizzi; e fiori fra i lunghi capelli, fiori e nastri bianchi, mi vedevo Primavera fra le dita di Botticelli riveduta e corretta per assecondare il mio sogno. Mi toccò un austero abito in stile impero, niente pizzi e niente nastri, niente svolazzi che facessero pensare a un vento fra le fronde, solo un monacale velluto in seta e fra i capelli tre fiori secchi ma l’organza la pretesi e comprai un ampio cappello con un discreto nastro che accarezzava il collo come un ricciolo niveo... Perfino il locale sul belvedere prenotato per il ricevimento fu spazzato dal mare grosso e si dovette festeggiare il fausto giorno in una trattoria inghirlandata per l’inusuale occasione; era una bassa costruzione bianca in periferia a due passi dalla casa dei miei nonni e, come quella bambina inebetita che correva nella notte di un tempo, percorsi la strada che mi separava da loro per regalare ai due vecchi stanchi la visione della nipote sposa, un fotogramma della vita che scorre, nonostante tutto.L’indomani i miei genitori ci accompagnarono alla stazione, dico i miei genitori ma in verità non ricordo la figura di mio padre in quel frangente pur essendo certa della sua presenza, predominante è l’immagine di mia madre. Forzatamente allegra, come volesse nascondere ogni emozione, non mi lasciò parole o gesti teneri da custodire nel mio cuore, sfilò dal dito il suo anello a forma di serpente e lo mise all’anulare della mia mano destra, mi baciò sulle guance e mi salutò con la mano mentre il treno prendeva velocità.Mi mancò l’abbraccio.Soffrivo e sapevo che lei soffriva... Sposa bambina, entrai nella vita dell’uomo nero... Mio fratello quasi gemello, sembrava un giovane leone in gabbia e a ogni tentativo di sfondare le sbarre, qualcosa crollava tutt’intorno e fu messa in fiera la bellezza di mia madre e la sua solare allegria, additata da tutti come in un rito punitivo, e in un vortice di parole e sussurri, si creò il ciclone che spazzò via la famiglia bella e ricca.Vidi mio padre per la prima volta.Questo uomo sconosciuto non tentava neanche di sottrarre i suoi cari da quel micidiale vento, divenne di pietra, come mia madre in quel balcone che la vide divenire statua. Guardava l’amore e lo lasciava andar via; guardava sua moglie e i suoi figli, guardava ma non vedeva. Ci lasciò scivolare via come sabbia fra le sue dita.Ancora una volta mi avvolgeva un silenzio buio, e tutti nel buio ci incamminammo, animali zoppi e senza vista, e senza pelo per poterci scaldare, e, ognuno, con il proprio freddo, da solo, abbandonò per sempre il mondo della famiglia.Si risvegliarono i giorni delle “capanne”, ora il mostro si agitava e disturbava, tornarono le memorie come fari accecanti: i tentativi di stupro del giovane bello e maniaco che si appostava nel portone di casa e con astuzia sfuggiva i miei giochetti fatti di ritardi o di anticipi. Fu tanto palese il mio terrore da convincere mia madre ad aspettarmi all’uscita di scuola per un intero mese, e lui sparì ma per poco; finì tutto un pomeriggio quando il fracasso di libri e penne scaraventati sulle scale perforò il silenzio e giunse agli orecchi di mamma che si scagliò come una furia su quel giovane, trafiggendolo con l’azzurro dei suoi occhi che all’occasione divenne appuntite lame di ghiaccio. Gli occhi della mente sembrano non concedersi pause e davanti a me sfilano in continuazione i gesti malati del nonno, del giovane, del mio insegnante di filosofia.Già, lui. Oltre che a scuola lo incrociavo troppo spesso nell’atrio del palazzo dove ci si era trasferiti da poco. Se facevo le scale, lui era dietro me e le sue mani sui miei fianchi o ovunque potesse appoggiarle in modo casuale e, se per evitarlo prendevo l’ascensore, lui lo trovavo già dentro, così che per ripararmi stringevo al petto, come fossero armatura, i libri, ma lui infilava le sue mani nodose nel seno e, come per giustificarsi prendeva un quaderno, a caso. E si disegnava un ghigno beffardo sul suo viso.Ero io ad essere sbagliata se suscitavo in più persone pensieri laidi e gli anni a venire anziché farmi cambiare opinione, servirono ad accrescere il mio bisogno di espiazione.Non ero degna di ricevere rispetto.Sarei stata madre perfetta. Avrei espiato questa arcana e involontaria colpa. Così come avevo imparato già da bambina, mi sarei presa cura di chiunque attraversasse la strada della mia vita, avrei dato tutto l’amore e la comprensione che non avevo ancora vissuto; le attenzioni malate che avevo conosciute, le avrei trasformate in sentimenti puliti, lavati con le lacrime del cuore, purificati.E divenni alchimista di me stessa.Usai il dono dell’intuizione e dell’allegria per alleviare le sofferenze di chi mi stava intorno.La mia penna seguitava a inondare pagine che inviavo ai miei fratelli piccoli, pagine pregne di amore, atte a scaldare le loro notti, e tanto più lunghi erano i discorsi scritti, tanto più lunghi vedevo i loro momenti fra le mie braccia. Ero la loro mamma virtuale. Gli abbracci d’amore erano righe colorate d’azzurro su fogli animati da sentimenti belli.Abbracci che nostra madre non poté partecipare.Colorai di sole la casa dell’uomo nero. Era questa la promessa fatta a me stessa in fondo: dare la gioia di cui ero composta che la capacità di uscire dal mio corpo e di guardarmi a distanza, aveva preservato.Mi servì tanto negli anni a venire, tale abilità.L’uomo nero al quale avevo affidato la mia fiducia nel domani e l’amore da grande romanzo, non amava la luce né la vita nella luce, mi costruì una cancellata attorno, edificò le mura del castello e mi investì dell’autorità di regina del maniero.Il castello non era mio, tanto meno del mio sposo, era già abitato da regnanti senza regno, come me d’altronde, e comunque divenni presto parte integrante di questa numerosa corte che era poi la sua famiglia. Durai poco a sfondare le corazze di queste stanze viventi chiuse nelle proprie stanze, il mio spirito determinato a volere armonia iniziava a conquistare ognuno, sviluppai le doti della maiéutica ed entrai nei loro animi, acquisii l’incombenza di fata turchina e si aprirono le porte.Nel castello esisteva una vera gerarchia regale. Il re, padre del mio sposo e indiscussa autorità, la regina, senza corona e senza autorità era sua madre; seguivano le due anziane zie, ancelle del re e delle principesse e dei principi. Erano nove in tutto, i dimoranti di questo invalicabile luogo, io era la decima, dopo di me venne una bella cagna a rallegrare noi, uccelli in gabbia, e i canarini gialli già in gabbia.Senza mai lasciare la me che guarda me, mi imposi di apprendere le arti che più si addicono ad una “perfetta donna di casa” e mi circondai di...