Bisogno di un buongiorno

Dopo un’ultima boccata di tabacco e catrame strinse la sigaretta tra pollice e indice e la lanciò lontano con una schicchera, espirando insieme al fumo i pensieri che mutano veloci dal grigio al rosso più acceso, come tutti i pensieri che attanagliano la mente di un ragazzo.
Si riconosceva costantemente perso tra il suo presente e lo sconfinato futuro, la sua mente viaggiava veloce passando istantaneamente dai programmi serali al progetto di una famiglia, una donna, un lavoro stabile, tutte cose previste per un lontanissimo avvenire.
Anche se lontanissimo, riteneva opportuno (inevitabile) preoccuparsi del proprio avvenire dando la stessa priorità all’immediato e all’oscuro destino.
Mentre riorganizzava questi pensieri e stati d’animo saliva lentamente la rampa di scale, gradino dopo gradino, ritrovandosi di fronte alla porta di casa sua.
Rovistò distrattamente nella tasca sinistra del jeans, impugnò il mazzo di chiavi e selezionò quella della porta blindata, inserì la chiave nella toppa e girò energicamente tre mandate.
La porta era serrata, a casa non avrebbe trovato nessuno.
Attraversò velocemente il corridoio con l’intento di raggiungere il gabinetto nel minor tempo possibile, la vescica pareva scoppiargli da un momento all’altro.
Senza prestare attenzione a niente si diresse verso la sua camera dove avrebbe lanciato il giacchetto sul letto per poi andare nella stanza adiacente: il bagno.
La sua attenzione tuttavia scattò nell’intervallo di tempo di un secondo da uno stato semi comatoso a quello di massima attività di una sentinella di vedetta in un carcere di massima sicurezza.
Quella non era la sua camera o almeno non era la camera che aveva lasciato poche ore prima.
Il violento pulsare della vescica che fino a pochi secondi prima sembrava essere la sua unica preoccupazione ora appariva come il ticchettio di un orologio lontano un paio di mondi.
Con un occhiata veloce ma maledettamente vigile scorse tutto il perimetro rettangolare della cameretta: il pavimento era rivestito da una moquette formata da panni, fogli, quaderni e libri vecchi tutti stropicciati e strappati, la sua collezione completa di cd dei Beatles era precipitata (magicamente precipitata?) dalla mensola affissa al muro sopra il letto…
Ovviamente c’era dell’altro, un’infinità di dettagli fuori posto che avrebbe analizzato più tardi perché in quel momento la vescica riacquistò importanza e corse in bagno.
L’unica spiegazione, pensò, è Alan! L’unica spiegazione accettabile, per quanto strana e inusuale.
Alan era il suo compagno di vita, un golden retriever affettuoso e intelligente il quale, tuttavia, non faceva mancare ogni tanto qualche sorpresina come prova del suo disappunto quando veniva lasciato solo.
Abbandonato, Alan userebbe questo termine per descrivere la condizione di solitudine a cui deve sottostare anche se solo per pochi minuti.
Questa riflessione lo fece sorridere, ma era a disagio perché aveva paura: in fondo al cuore sapeva di essere protagonista di una situazione particolare.
Chi possiede un cane è senza dubbio abituato a tornare a casa e trovare cose fuori posto, rotoli di carta igienica sbranati e sminuzzati in mille piccoli pezzetti sparsi per il corridoio, strofinacci da cucina sbrindellati, una bottiglia frantumata in terra; ritrovare la propria abitazione sottosopra come se fossero entrati dei ladri è normale, per chi possiede un cane.
E se il cane è chiuso in una stanza, una stanza diversa dal luogo del disastro, rimane un fatto normale? Un cane che apra da solo la porta, si diriga in una cameretta con l’intento di devastarla per poi tornarsene in cucina richiudendosi la porta alle spalle, è normale?
Cercò di non dare troppo peso a queste riflessioni e, uscito dal bagno, camminò sentendosi instabile sulle proprie gambe fino a ritrovarsi davanti alla porta a vetro scorrevole della cucina.
Scorrevole..è una porta scorrevole! Sapeva essere un fatto comune che un cane di taglia più grande che media apra le porte di casa impennandosi sulle zampe posteriori per poi fare leva con il peso del corpo sulla maniglia, certo, che c’è di strano? Niente. Ma una porta scorrevole?
Non volle pensarci visto che non avrebbe potuto far niente per risolvere il mistero, non in quel momento.
Ci potevano essere plausibili risposte a questi quesiti, magari sua madre prima di andare a lavoro lo aveva lasciato libero per la casa senza trovare il tempo di gestirlo, per poi richiuderlo in cucina una volta accortasi dei danni.
Con l’indice strinse il gancio in prossimità della serratura e tirò verso destra: la porta iniziò lentamente a scorrere e lo scenario velato dietro di essa si manifestò un poco per volta.
L’impatto con questo angolo della casa non aveva niente a che vedere con quell’inaspettato stupore di pochissimi minuti prima.
Era tutto in ordine ma, stranamente, Alan era accucciato sotto il tavolo, con le sedie intorno a creargli uno scudo protettivo. Esitò più del previsto prima di sporgere il musetto dorato al di là della muraglia difensiva di sedie, verso la sua direzione.
Alan aveva paura, glie lo poteva leggere negli occhi e lo poteva intuire da quello strano comportamento che tanto si allontanava dal carattere affettuoso e giocoso (certe volte ai limiti della tolleranza) che era sempre stato alla base del suo cane.
Fletté le ginocchia e si accovacciò per accarezzare il suo cane, ma Alan ebbe un sussulto appena la mano del suo padrone si avvicinò alla sua testa; era spaventato, di questo poteva esserne certo, ma la domanda vera e propria era: di cosa? O meglio – peggio.. forse è peggio – di chi era spaventato?
Sicuramente non di lui, questo era un fatto che non poteva essere messo in dubbio. Loro due erano migliori amici nel vero senso della parola, si volevano bene e vivevano l’uno per l’altro perché tra loro c’era un’intesa particolare, di quelle intese magiche e poetiche che raramente vengono credute a pieno se raccontate a qualcuno.
In quel momento sentiva che il cane non aveva paura di lui e sentiva che Alan tentava di urlargli in faccia “Io non ho paura di te!”.
Qualche attimo di pensieri e esitazioni, dopodiché Alan gli saltò addosso facendogli perdere l’equilibrio precario che lo costrinse a passare dalla posizione accovacciata a quella culo‐per‐terra.
Montò tra le sue gambe ora incrociate e iniziò a leccarlo freneticamente sul volto e sul collo, lo annusò ripetutamente ansimando e il suo padrone, emozionato e contento di vederlo per lo meno “sollevato”, lo accarezzò con energia facendogli le coccole.
Passò circa venti minuti a terra con il suo golden retriever a giocarci e a coccolarlo, poi si alzò e considerò l’idea di telefonare a sua madre.
Mentre fissava apatico il telefono si accorse di una cosa, una cosa che avvertì praticamente subito: se Alan fosse stato un essere umano, probabilmente lo avrebbe trovato scosso per chissà quale motivo, ma aveva la strana impressione che lo avrebbe trovato muto.
Questa cosa lo faceva riflettere e lo terrorizzava perché il suo cane aveva perso la parola, non era più in grado di comunicare fonicamente. Tutto questo può sembrare assurdo, ma per lui era normale perché loro comunicavano anche con dei suoni: uno parlava, l’altro emetteva versi.
Eppure ora il suo cane appariva come certe persone che in seguito a qualche evento terribilmente traumatico perdevano l’uso della parola come conseguenza dello shock, ne aveva viste a decine di persone così tra i telefilm polizieschi che giravano in tv.
Tutto d’un tratto si sentì senza forze, esausto come non mai, e incamminandosi in direzione del letto di camera sua pensò che qualcuno lo avesse drogato, magari con qualche pasticca nella spremuta d’arance presa al bar prima di venire a casa.
Forse una pera più carica del dovuto fa questo effetto… Fu l’ultimo pensiero che ricordò di aver formulato, dopodiché sprofondò sempre di più, sempre più in basso.

Vedeva la sua stanza dall’alto di uno dei quattro angoli come se i suoi occhi fossero l’occhio unico di una telecamera, come quelle che si trovano fuori dei centri commerciali a sorvegliare l’area di ingresso.
Tutto era immobile, incredibilmente piatto, e l’atmosfera era di una calma inquietante perché troppo perfetta. Era la calma da regia di un film horror creata per il solo scopo di presagire una tempesta.
Gli addetti alla vigilanza che si ritrovano a vedere le registrazioni di una telecamera a circuito chiuso dopo una rapina vivono la stessa situazione: tutto procede in modo pacato e tranquillo finché all’improvviso non arriva il caos, con un’accelerazione 0‐100 in un istante impercettibile.
E così fu. Vide tutto e allo stesso tempo non riuscì a vedere niente.
Iniziò tutto con la porta che si spalancò di scatto e da essa entrarono degli uomini. Più che uomini, quello che riuscivi a scorgere erano delle forme, delle sagome, e quelle sagome assomigliavano a quelle umane.
Eppure non erano gli  uomini che noi tutti conosciamo perché non avevano bisogno degli arti per muovere oggetti e sembravano anche ignorare le leggi della gravità.
Queste forme fluttuavano senza volare, galleggiavano semplicemente attraverso il pavimento e ispezionavano.
In realtà non gli parvero cercare qualcosa in particolare e il loro interesse stava solo nel far volare gli oggetti da una parte all’altra.
Erano in cinque, due donne e tre maschi o tre maschi e due donne o forse erano tutte donne o tutti maschi o nessuno dei due sessi.
Si poteva trovare delle differenze tra loro solo per il colore: due apparivano bianchi e tre apparivano neri.
Probabilmente andavano in giro coperti da un lenzuolo, come il fumetto di un fantasma, solo che questi lenzuoli erano attillati e aderenti alle loro forme. Quello che questi lenzuoli sembravano, più che lenzuoli da fantasma, era pelle. Sembrava il loro corpo e non il rivestimento di esso.
Provò a svegliarsi con tutto se stesso, aveva bisogno di aprire gli occhi e constatare che la realtà era ancora bella e sensata come sempre.
Aveva bisogno che la razionalità lo prendesse a sberle in faccia.
Provò a svegliarsi, ma non ci riuscì.