Carlton Arms Hotel

Come un vagabondo alla deriva dall’East Village, il Carlton Arms, esteso su quattro piani, è un hotel da combattimento e dallo stile rock’n'roll. Adesso me ne sto sdraiato sul letto, indeciso su cosa fare, un po’ stanco. Accanto a me l’arredamento è quello di un bar americano degli anni Cinquanta. La mia stanza ha la moquette rossa. C’è un’insegna al neon della birra irlandese Killian’s, proprio di fronte a me, sopra la porta del bagno, e non c’è modo di spegnerla neanche di notte. E poi c’è un bancone di fronte alla finestra, con due sgabelli ai lati, e bottiglie semivuote e impolverate di scotch, e un piccolo juke‐box da tavolo non funzionante, e una mini slot‐machine grande quanto una mano in cui ho inserito una moneta da mezzo dollaro, e so già che non la rivincerò mai.

Una donna dallo sguardo languido, in gonna lunga marrone e pullover bianco, è disegnata sul muro alle spalle del letto, a grandezza direi più che naturale, con accanto la scritta “live fast die young”. Vivere veloce, morire giovane. E poi, quasi mi dimenticavo, c’è la porta del piccolo bagno. La porta del bagno, insomma, è decisamente un capolavoro. C’è una ragazza in guepiere attaccata alla porta in pratica. Cioè la sua statua in legno. Metà, la metà davanti, su un lato. Metà, la metà posteriore, sull’altro lato. Cioè quando sono seduto sul cesso me la vedo di fronte, girata di spalle. A giudicare da come l’ho trovata si direbbe che qualche precendente inquilino della stanza le abbia strappato le mutande. Quando invece come ora sono sdraiato sul letto, mezzo addormentato, ma la trovo di fronte, in piedi, che guarda verso un punto indefinito dello spazio e del tempo. E sembra porgermi la mano. Ormai quando devo aprire la porta del bagno non uso più la maniglia, la prendo direttamente per mano.

Non tutte le stanze sono come la mia, ovviamente. Il Carlton Arms Hotel è un albergo di 54 stanze, ognuna è decorata in maniera differente da un diverso artista. E’ un posto vecchio di cento anni. All’inizio era una modesta pensione per commessi viaggiatori in trasferta a Manhattan. Poi negli anni Settanta divenne un covo di tossici, poco di buono e prostitute. Se lo chiedi al gestore dell’albergo lui te li descrive così: “Gente sola e persa”. Poi un gruppo di artisti cominciò a disegnare tutto l’hotel, ognuno sognandolo a modo suo. Ogni centimentro di ogni muro, compresa la reception, i corridoi, i bagni in comune, provò a diventare un’opera d’arte.

Ho chiesto all’adetto nella hall di vedere qualche altra stanza. Lui mi ha dato un po’ di chiavi di quelle libere e così ho cominciato a gironzolare per l’albergo. Una ha un letto posto su una piattaforma rialzata circondato da colonne alte fino al soffitto e finiture abbinate. Un’altra ha un letto color rosso vivo poggiato su tappeti a pelo lungo blu, attorniato da murali in stile veneziano. In un’altra ancora infuriano guerre stellari sulle pareti e sul soffitto. E ancora stanze di Versailles, cottage inglesi, sottomarini. Il secondo piano vive nella pop art, il terzo su un’astronave verso la luna, il quarto in una piramide dell’antico Egitto. Anche tornando dopo una notte di party e follie sarebbe arduo confondere corridoio. Avrei potuto cambiare stanza ma ho preferito di no. Mi piace dormire in questa specie di bar con la donna attaccata alla porta del bagno. E poi sono proprio di fronte alla reception, a qualunque ora illuminata da rilassanti lucette in movimento, unico punto in comune dove incrociare arrivi e partenze di inquieti avventori e spaesati turisti, o dove farsi offrire un drink. O dove chiedere un’asciugamano, che altrimenti nessuno le cambia.

Il gatto Charlie, perennemente sdraiato a ronfare sulla sua sedia cardinalizia, fa la guardia alla mia porta. Ho chiavi e lucchetto dell’albergo, il portiere ha posato la sua chitarra e me le ha consegnate appena arrivato, senza tante menate. Nel suo ufficio pieno di chiavi e disegni spicca un busto d’oro di Elvis e una mazza da baseball decorata con le parole “Rent is due, please”. E’ un albergo sgangherato, vero, però accogliente. E’ anche il più cheap di tutta Manhattan, faccio notare. Solo ogni tanto, nel cuore della notte, sento dei colpi, delle esplosioni, degli stantuffi. Bang! Bang! La prima volta mi sono svegliato di soprassalto. Poi mi sono fatto spiegare: è tutto normale, sono i vecchi tubi della caldaia che hanno bisogno di buttare fuori un po’ d’aria. Bang, bang! Ogni paio d’ore, di notte, fanno questo concerto. Sotto la mia finestra intanto taxi e polizia e sirene non smettono mai.

“Questo hotel è sempre stato pieno di pazzi” racconta John Ogren, che lo ha gestito per anni. “Una donna si era convinta che era popolato da alieni, e non ci fu verso di rassicurarla, credimi”. Molti appena arrivano e vedono dove sono finiti, cambiano idea e se ne vanno. “Leggono la parola ‘trendy’ sulla guida e chissà quale glamour si aspettano”. Altri restano delusi dal servizio. “Una volta venne da me una coppia, avevano scoperto un mozzicone di sigaretta nel loro posacenere, appena arrivati. Questa è una catastrofe, mi disse la ragazza. No, le ho risposto. L’Olocausto è una catastrofe, questa è appena un piccolo fastidio”. Una notte infine stiamo io, il portiere Hugo e il gatto Charlie. Arriva una donna bionda, molto ossigenata e con troppo trucco, e tira fuori una banconota da cento dollari davanti al nostri nasi. “Arrivo ora da Los Angeles, voglio la stanza migliore e più grande dell’albergo”. Veramente ci sarebbe solo una stanza piccolina con bagno condiviso, tenta di spiegare Hugo con la banconota ancora sospesa a mezz’aria. “Scordatelo allora” risponde lei, gira i tacchi e se ne va.