Charlie (Una stanza chiusa)

Charlie scosse Sonia dal sonno. Si era rannicchiata sulla poltrona pieghevole accanto al divano, davanti al televisore, e dopo pochi minuti lui era riuscito ad avvertirne il respiro farsi più pesante e profondo. Allora aveva abbassato il volume e si era piazzato davanti al computer a perder tempo. Non voleva disturbarla. Dopo quella giornata, credeva che fosse meglio lasciarla riposare.
Non si vedevano da quasi sei mesi. Lei era tornata a casa dai suoi per fare qualche lavoretto e racimolare un po’ di soldi da conservare. Quando era partita non aveva detto niente, nulla di nulla, neanche al momento dei saluti. Una cosa strana da parte sua, non parlare. Rideva al pensiero di quante volte si era trovato sul punto di riderle in faccia pur di farla stare zitta. Però in fondo gli piaceva quel suo modo di sotterrare il silenzio, come se ne provasse vergogna, come se l’idea di restare senza niente da dire per un solo secondo addirittura la atterrisse. Sonia riusciva ad avere sempre l’argomento pronto, una discussione nuova. Un impaccio in meno per lui, questo è sicuro.
Ma quel venerdì era andata in maniera diversa. Charlie aveva ricevuto una telefonata di Sonia nel primo pomeriggio: gli diceva che sarebbe arrivata con l’aereo delle sette. Il suo tono di voce era entusiasta ma teso, sovraccarico di finzione. Lui non le aveva dato ad intendere di aver sospetti, comunque. Si era limitato ad annuire, assicurandole che sarebbe andato a prenderla in aeroporto.
Quando aveva rimesso giù si era sentito oppresso, senza ragioni apparenti. O forse la ragione c’era: Sonia non era più quella di sempre. Da quando se n’era andata, pensava.
La conferma gli era arrivata quella sera in aeroporto, quando lei lo aveva raggiunto al parcheggio. L’ultima volta era stato tutto uguale, scenario, protagonisti, forse anche l’occasione, tutto. La differenza era che allora Sonia stava sorridendo: un sorriso che avrebbe abbagliato e tramortito e fatto innamorare chiunque. L’ultima volta Sonia sembrava felice di vedere Charlie.
Questa volta no.
Come la vedeva adesso sorrideva debolmente, le labbra incollate ai denti, lo sguardo affettato e contratto. Sembrava stesse trattenendo una fiala di arsenico sotto la lingua. A Charlie era dispiaciuto il solo fatto di averlo immaginato. Gli era sembrato grottesco. E, d’altronde, anche il ricongiungimento era stato più che strano: nessun abbraccio, salto d’emozione, pizzico sulla faccia. Solo un bacio morbido e prolungato su una guancia, qualcosa che gli aveva trasmesso sarcasmo, dolore, senso di freddo.
In macchina quel freddo aveva ghiacciato ogni cosa, si era espanso come fiato su una lente. Lei lo ringraziava per l’ospitalità, lui scuoteva la testa, e tutti e due ripiombavano nel silenzio più mortale che li avesse mai divisi. La conversazione si era ripetuta almeno un paio di volte, contribuendo ad aumentare il gelo nell’aria e a surriscaldare le punte delle orecchie. Tutto a voler rimandare la fatidica domanda: perché così d’improvviso? Charlie aveva deciso di soprassedere ‐ per il momento ‐ limitandosi a chiederle cosa volesse per cena, una volta arrivati a casa. Qualsiasi cosa, anche una pizza, gli aveva detto lei; poi si era ritirata in camera da letto a disfare la valigia, anche questa strana, diversa dal solito. Troppo piccola e vuota.
“Quanto ti trattieni?”
“Fino a domani, credo. Al massimo vado via domenica”.
Parlava e si muoveva come un automa. Anche durante la cena, mentre si discuteva di corsi universitari, lavoro e quant’altro, era come se si fosse scritta tutto da qualche parte e l’avesse mandato a memoria. Finito di mangiare, lui le aveva proposto di andare a fare due passi ‐ per rompere il ghiaccio, in realtà, ma aveva pensato non fosse esattamente il caso di dirglielo.
“Scusami, se vuoi esci tu, ma io sono parecchio stanca. Magari, se non ti dispiace, mi metto a guardare un film dei tuoi”.
Charlie non ne era rimasto assolutamente sorpreso, anzi: si può dire che se l’era aspettato dal primo momento. Le aveva detto di stare tranquilla, ché faceva pure freddo e non aveva poi così tanta voglia di uscire. Avevano sorteggiato un dvd, più per forza che per altro, e alla fine ne era venuta fuori una commediaccia romantica di serie B. Charlie si era sistemato sul divano, con due calici vuoti e una bottiglia di rosso scadentissimo acquistato qualche giorno prima. Ne aveva versato un po’ a entrambi. Era stato quello, forse, a darle il colpo di grazia; o chissà, magari era stata colpa della poltrona.
Quando fu svegliata da Charlie, Sonia parve non comprendere dove si trovasse. Si stiracchiò, guardando con aria interrogativa la faccia bruna china su di lei; poi biascicò qualche parola e si ripiegò su un fianco, come per riaddormentarsi.
“Vieni di là. Ti ho sistemato la branda”.
Sonia non disse nulla. Dal respiro Charlie fu sicuro che fosse sveglia, ma avvertì comunque una quiete strana, che lo turbava. Tempesta, pensò. La conosceva troppo bene per far finta di non saperlo.
Non insistette e attese che lei facesse qualche movimento. Passarono minuti secolari e immobili, fermi quasi quanto Sonia su quella poltrona. Poi finalmente accadde: lei rialzò lo sguardo su di lui. Era severa e disperata.
“Non sono venuta qui soltanto per motivi di studio. Penso che tu questo l’abbia capito”.
Charlie annuì, non fece altro. Annuì aspettando che sganciasse la bomba.
“Ne sono successe di cose in questi mesi… Cose che all’apparenza non ti interessavano. No, credo che non ti siano passate nemmeno per l’anticamera, a pensarci meglio.”
Lui sentì la saliva addensarsi in fondo alla gola. Era come provare a mandar giù una cucchiaiata di caramello bollente.
“Beh, sono venuta qui a dirti che di queste cose tu sei l’ultima.”
Nel terminare la frase ebbe uno scatto, un fremito, che tentò di nascondere mettendosi in piedi e stringendosi nelle spalle.
“Sonia… ma che ti ho fatto?”
“Niente. È proprio questo il punto. Non hai fatto proprio un cazzo per me”.
Charlie avrebbe voluto dirle quanto faceva male sentirla parlare così, senza affetto, senza dolcezza, con quella rabbia caustica e tagliente spuntata dal vuoto. Avrebbe voluto dirle che si sentiva morire. Ma non lo fece, no, lui preferiva ascoltare, lasciare dire e fare agli altri, perché era a loro che doveva appartenere la responsabilità di certe cose.
Sonia intanto aveva cominciato a traboccare, gli occhi castani velati d’acqua, gli angoli della bocca che tremavano.
“Sono stanca, capisci? Stanca…”
“Di cosa?!”
“Di salutarti e ricominciare ogni volta da capo. Di ricostruirmi una vita ogni volta, mille vite da cui tu sei fuori… perché vuoi starne fuori”.
Le ultime quattro parole ebbero l’effetto di una scarica elettrica in pieno petto. Charlie rimase stordito, imbambolato, stupido, a fissare gli occhi neri e bagnati di Sonia, a pensare a quanto avrebbe voluto stringere quel piccolo ovale fra le mani, accarezzarne la pelle e dire ‘è tutto a posto, non voglio starne fuori’. Ma per uno come lui la verità era una cosa maledettamente difficile, come indursi il vomito dopo una sbronza mondiale. Se poteva farlo star meglio non importava, perché era troppo disgustoso e squallido provarci. Dire la verità era, a su modo, un disonore. Di fronte a questo tutto poteva risultare sopportabile, anche vedere Sonia crollare, lasciarla sgretolarsi, farsi liquida e minuscola, e non muovere un solo dito per impedirglielo. Non dire e fare niente, nella maniera più assoluta.
Così Charlie fece la sua scelta. Guardare in basso, voltarsi, accendere una sigaretta e riempire di nuovo il bicchiere col rosso scadente. Trangugiare e fingere che Sonia non stesse singhiozzando, piegata in due sul bracciolo della poltrona. Faceva male, un male atroce, e avrebbe fatto male ancora. La notte era lunga, lunghissima ‐ l’orologio sulla parete segnava  a stento l’una ‐ ed era vuota di rumori, occupata da nient’altro a parte quei singhiozzi assurdi, continui, incancellabili, misti a un lontanissimo borbottio televisivo proveniente da un altro pianeta.