Codice nero

Entra dottoressa, non ti spaventare. Mi dispiace che mi stai trovando così, se sapevo di dovere fare una visita, mi preparavo.
Magari mi facevo la doccia e pure dal parrucchiere, andavo.
Entra, avvicinati. Tutta la casa in mezzo, che vergogna.
Ti vedo che indugi, non sai che fare, gli occhi brillano, anche se la luce è poca ‐ che qui è un basso e da fuori ne entra poca, di luce.
Entra, avvicinati; là c’è una sedia, là, a sinistra.
Fatti fare luce da Luigi, questo poliziotto con la lampadina accesa. Ah, lo conosci? Sì, fa servizio anche al Posto di Polizia dell’Ospedale. È a lui che ho fatto la denuncia, la prima volta.
Però non hanno fatto niente : a mio marito, Antonio, l’hanno chiamato al commissariato e gli hanno chiesto “ma lei che fa, la mena a sua moglie?”
E quello che gli doveva dire?
“No, ma che dice, commissario? Forse le ho dato una spinta, quel giorno che sono rientrato e la cena non era ancora pronta. Ero stanco, tutto il giorno al cantiere e lei a casa a non fare niente. Io quando torno a casa devo mangiare, che fatico assai, e lei lo sa”.
Così l’hanno lasciato andare. Pure un sorriso gli hanno fatto, e gli hanno stretto la mano ‐ me l’ha detto lui, quando è tornato a casa.
E rideva, pure. Come rideva, ancora lo sento.
Entra, dai. Dai dottoressina, vieni. Attenta, non ti avvicinare troppo da questa parte che scivoli: il sangue fa lippo (1) sotto le scarpe, pure se sono antinfortuni come le tue.
Ecco, girami intorno. Vieni da qui, che vicino alla faccia c’è meno sangue.
La prima coltellata Antonio me l’ha data da dietro, mentre ero di spalle vicino al frigo, che stavo prendendo il latte di Giuseppe mio, il bambino.
Vieni, dottoressa. Ora che sei vicina, io ti conosco. Aspetta, che non ti vedo bene. Ma sì, mi pare... Certo, ora ricordo: tu mi hai fatto l’anestesia per il travaglio. Che strana coincidenza, non mi aspettavo di vederti qui, mi aspettavo il medico dei morti, non un’anestesista.
Quella notte ti ho benedetto le mani, quando hai finito. Ti ricordi? Che dolore che avevo, mi pareva insopportabile.
Ma ora ti posso dire che per morire così, ci vorrebbe la tua anestesia, altro che per partorire.
Giuseppe te lo ricordi? Me l’avete messo sulla pancia e subito ha smesso di piangere.
Mi hai detto che lui mi aveva riconosciuta dal battito del cuore.
Me lo sono baciato, tutto sporco che faceva schifo, ma a me non me ne faceva, figlio mio.
Siamo tornati a casa presto: dopo tre giorni eravamo qui, Giuseppe ed io. La casa l’ho trovata un letamaio, che Antonio dice che tempo non ne aveva di lavare i piatti e rifare il letto. Figurati a pulire il cesso.
Pure la culla, messa di lato nella nostra stanza, era tutta sottosopra come se ci avesse dormito il cane. Ma noi il cane non ce l’abbiamo.
Ho pulito tutto, con Giuseppe che strillava anche dieci ore di seguito. Non ci poteva niente, a calmarlo. Diventava tutto rosso e quando pareva che fiato non ne aveva più, si fermava un minuto e poi ricominciava.
Antonio ha detto “ma questo bambino con chi l’hai fatto, col demonio?” E mi ha dato la prima sberla, ma forte che mi sono rimaste le sue dita stampate.
Ogni giorno tornava dal lavoro e già era incazzato. Chiudeva la porta e accendeva la televisione. Il volume lo alzava fino a coprire il pianto, e si beveva la prima birra.
Io presto‐presto lo facevo mangiare, che pareva un lupo: trecento grammi di pasta finivano in un attimo. E poi un’altra birra e un’altra e un’altra, e CSI alla televisione.
Il volume sempre a tremila, si addormentava sul divano, con l’ultima sigaretta ancora in bocca, accesa. Gliela levavo io, per evitare che andava a fuoco la casa.
Poi la televisione non gli è bastata più: voleva me.
E lui quello che vuole, è abituato a prenderselo.
Alla quarta birra spegneva la televisione e veniva a letto, mi levava Giuseppe che dormiva e lo sbatteva nella culla come un bambolotto.
Il piccolo si metteva a piangere in un attimo, e Antonio ce l’avevo già di sopra, che faceva. Lo lasciavo finire e volevo scendere a calmare il bambino, ma lui mi teneva: “a me mi devi calmare, no a quel figlio di chissà chi, ché figlio mio sicuro non è, che non ho pianto mai in vita mia”.
Mi teneva così stretta che una notte di quelle, l’indomani avevo due costole rotte.
Era sempre nervoso, Antonio, e le mani le ha avute sempre pesanti, lo sapevo già da prima, che una volta, fidanzati, mi ha regalato dei cioccolatini e siccome non mi andava di mangiarne subito, che ero a dieta, me ne ha ficcato uno in bocca con tanta forza che si spaccò il labbro: cioccolatino al brandy e sangue. L’ho ingoiato.
Quella sera, mentre mi riportava a casa, mi sono chiesta se davvero lo volevo sposare e mi sono detta che poi col matrimonio cambiava, che la colpa era mia, che in effetti un cioccolatino me lo potevo pure mangiare, va'.
Non è stato così, proprio no. Non è cambiato. Anzi, sempre peggio, è stato, che al commissariato ci sono andata tre volte in un mese, sempre con gli occhi neri e lividi dovunque.
Me ne sono andata tre giorni fa, con Giuseppe, perché qui avevo paura: mi pareva che doveva succedere qualche cosa. Me lo sentivo.
Ma latte non ne avevo più e manco i soldi per comprarlo; mio padre è pure disoccupato. Allora ho pensato che qui ce n’erano due scatole ‐ me le aveva portate la suora del Banco Alimentare. E il bambino doveva mangiare. Per questo sono venuta, stamattina.
Mi pareva che Antonio era al lavoro, la porta l’ho trovata chiusa.
Allora sono entrata e sono andata al frigo. Io quello solo volevo prendere: il latte per Giuseppe mio. Del resto non m’importava.
Lui è venuto da dietro, non l’ho sentito.
Mi sono aggrappata al mobile, la vedi quella manata rossa? Ci potete fare le impronte, e trovate le mie.
Mi sono girata per farlo calmare, ma non si calmava.
Il coltello era quello del pane ‐ quello del ceppo che mi ha comprato Cettina con le mance raccolte in due mesi ‐ ché in cucina i coltelli servono, e io non li avevo potuti comprare. “Soldi per le cose inutili non ne abbiamo”, aveva detto lui, “fatteli regalare da qualcuno”.
Poi aveva detto “ belli questi coltelli, guarda questo com’è lungo”.
Lungo appunto, che mi è entrato nel petto ed è uscito da dietro. Guarda.
No, dottoressina, per vederlo mi devi alzare. Ma forse non puoi, questa è la scena di un crimine: mi devi toccare il meno possibile, il necessario per constatare. A CSI lo dicono sempre.
Mi sono appoggiata al muro, prima con una mano, aperta, e poi con tutt’e due le mani. Poi sono scivolata a terra, vedi le strisciate sulle mattonelle, qui sopra ?
Mi spiace, dottoressa, che mi sei venuta a trovare così e che in casa c’è puzza di sangue e senti la mia paura tremenda di morire, che ancora c’è nell’aria.
Fortuna che Giuseppe l’ho lasciato da papà.
Sai com’è diventato grande, il mio bambino? A casa di papà si è calmato, sono tre giorni che non piange.
Magari un giorno lo vai a trovare, ma non gli dire che ci siamo viste così, non glielo dire mai.
La mia giacca odora di varechina e ossa sepolte? Immagino. Ti viene da vomitare? Lo capisco.
Vattene, va', dottoressina, non hai nulla da fare qui, ora vai al tuo lavoro, che qui ti ci hanno mandato ma non era il posto tuo.

(1) (dialetto siciliano‐>materia scivolosa)