Come in una gabbia

Non so com’è successo. Non so come mi ci sono ritrovato. Non ne conosco le modalità. E nemmeno la motivazione. E’ successo tutto così repentinamente, quasi senza che me ne potessi accorgere. E senza una ragione apparente. Senza volerlo, forse. Senza che lo decidessi davvero. E’ stato come l’entrare in una gabbia ben celata, con all’interno un succulento trofeo, come ad invitarti. A tentarti. Ed il trofeo è tuo, in fin dei conti. Probabilmente l’hai anche meritato. E puoi assaporarlo. Ma, una volta toccato, forse anche prima, una volta solo agognato, la gabbia si è chiusa. E’ così che mi sono ritrovato sposato.

Questo sodalizio alle volte logora. Non so se è dovuto alla mia consorte o alla situazione in quanto tale. Alla situazione in generale. Se è dovuto a me. A come mi rapporto ad essa. O a come mi rapporto alla situazione. O come essa si rapporta a me. O come credo essa si rapporti a me. O come credo di rapportami io. Ad essa ed alla situazione. Ed a me stesso. Sta di fatto che alle volte è dura. Sembra di non poter riuscire ad andare avanti. E molleresti tutto. E vorresti solo chiedere il divorzio. Non che non ci siano momenti di felicità. O felicità apparente. Poco importa sia essa apparente o effettiva. C’è. Il pensare al come essa si presenti serve solo a logorare ulteriormente. Non dovrei pensarci. Ma ci penso. E penso che faccio bene a pensarci. Ma complica. Eppure lo voglio fare. Forse è per una mia attitudine a voler capire le cose nei minimi dettagli. Non voglio esserne succube, forse. Pensieri che scorrono veloci dandoti non la possibilità di trovarvi una risposta. Perché non ne è finito uno che già un altro sorge, collegato al precedente ed al successivo. Ed a tutta la rete di pensieri.

Questo sodalizio, per quanto duro, per quanto difficile, per quanto logorante, ha i suoi momenti felici. Qualcuno potrebbe dire che essi sono inanerrabili. Ma, se inanerrabili sono, di contro anche i momenti cattivi lo diventano. Forse è proprio questo che complica il tutto: la mancanza di punti fissi che portino a delle conclusioni. Se conclusioni ce ne sono.

E poi arrivano i dubbi di natura più pratica. Come “ma io, lei, la conosco veramente?”. Forse la domanda più appropriata sarebbe “ma io mi conosco veramente?”. Ma sei troppo preso a pensare ad altro per soffermartici. E’ strano come si pretende di conoscere gli altri quando è così sfuggevole anche la conoscenza del sé. Si ha la sensazione di conoscersi, ma molti atteggiamenti che si assumono risultano davvero estranei anche all’assuntore di essi. O, almeno, estranei a livello conscio.

E’ in preda a questi dubbi, a queste paure, che davvero vorrei chiedere il divorzio. Un semplice, facile e liberatorio divorzio. E forse è la paura del dopo che mi impedisce di chiederlo. Il chiedersi “come sarà senza di lei?”, “cosa verrà dopo di lei?”, “e se starò peggio?”. Perché, i fin dei conti, l’ho già detto, i momenti belli ci sono. Come si usa dire, i momenti che funzionano. La amo, in fin dei conti. E la odio. E’ un rapporto ambivalente e, lo so, sembra malsano. Come si fa ad odiare ed amare una cosa nello stesso, preciso istante? Eppure si inveisce contro la squadra tifata nel caso perda una partita. Anche più duramente, perché ci si sente traditi nel profondo. Ci si sente traditi da qualcosa di estremamente intimo. La mente umana è contraddittoria. E metaforica. E confusa. E non discerne del tutto gli impulsi chiamati sentimenti. Forse. Ed è forse per questo che la odio. E la amo. Ed è per questo che non so se chiedere o meno il divorzio.

La odio e la amo questa mia consorte. Questa mia consorte che è la vita.