Di rosso e di giallo in acqua trasparente

Irlanda e scogliere a picco, immagino che un mare grintoso denso di salsedine fino ad impregnare l’aria possa rendere l’idea di come un cuore selvaggio decolli al solo pensiero della danza.
Di rosso e di giallo sono le vesti, di acqua e di cielo lo sfondo e l’espressione di una strega colorata che espande il suo essere e il mondo di un potere benefico e altruistico. La musica, anzi le note scritte di nero veleggiano in una melodia turbinante che dona movimenti sinuosi a corpi sudati, la liberazione dei sensi che sottoforma di gesti antichi e tribali ritorna. Lo spirito si appropria di ciò che gli spetta, arti e tronco al suo servizio per la libera espressione di se. Non è una magia, è una religione e mentre penso a te non ho ancora finito. Sono in Africa, fletto le gambe più in basso, sempre più in basso, bruciano e ora ho il ventre forte, le braccia tese, ogni muscolo parla dell’anima, ogni sorriso apre il viso. Se i miei capelli si sollevano con il vento e viaggiano urlando  è solo l’inizio. “The village” è il suo nome, questa congrega di rosso e di giallo, questa euforia, questo discorso privo di parole che come uno slogan reclama il suo esserci, sono qui anch’io.
Ne faccio parte e mi piace, manchi solo tu. Ho il potere di slegare le anime dalle loro manette e  dono gioia, guarisco. Dio è noi, noi siamo Dio perciò deve essere così.
Se lo spirito è vivace, unico nella sua diversità in ogni essere umano ti amerò per sempre.
Deciderò se è giusto o sbagliato o forse mai lo farò perché non mi importa, so che un corpo è sano se lo spirito lo vivifica fino all’ultimo centimetro di pelle, ed è proprio di questo che ti voglio parlare. Di Pelle di Luna.
Era lei che aveva vinto la lotteria e si era comprata un’auto rossa con la quale sfrecciare attraverso le montagne in cerca del puma. Puma non era un animale ma un uomo.
Il Puma era stato soprannominato così perché rispondeva a monosillabi bassi e con un leggero graffiante ringhio alle domande di chicchessia. Viveva solitario in una baita di legno che si era costruito e adorava starsene seduto sul gradino davanti alla porta ad attendere l’alba. Non che di notte dormisse, come i felini che si rispettino era la caccia il suo scopo principale notturno.
Comunque, Pelle di Luna aveva comprato il biglietto della lotteria e il giornale lo stesso giorno, il biglietto era finito in fondo alla borsa e il quotidiano davanti ai suoi occhiali. Aveva letto di Puma proprio lì e nella sua espressione persa nel grigio della nebbia di novembre, uno spiraglio di luce aveva disegnato un sorriso sul suo volto. Perciò l’estrazione che avvenne per l’esattezza la vigilia di Natale fu per lei una gioia sconfinata che nulla riuscì a quietare. Acquistò immediatamente l’auto e si mise sulla strada alla ricerca di Puma, ignorando richiami, reclami, dettami, legami.
Valicò ogni valle e si spinse a gran velocità sulle impervie curve frettolosa di giungere alla meta, lui non sapeva del suo arrivo chissà come avrebbe reagito.
Puma che stava sistemando le sue prede con grande fierezza si complimentò con se stesso per il gran numero di esse e intuì che si trattava di un presagio.
Era un uomo terribilmente spirituale dal fisico massiccio ed elevato. Un amore.
Con un certo nervosismo avvertiva nell’aria quel sentore profumato, quel suono indefinito di foglie e fiori, quello senso di novità, verità, animosità. Nella foresta non trovò il benché minimo conforto, la sua solitudine gli piombò addosso come il più grave dei crolli pietrosi, lo sconquassò tutto, senti cedere se stesso in una bolgia squamosa e soffocante.
Si gettò a terra, affranto, in un miscuglio di mani che afferrano il petto e un dolore paralizzante.
Era lei, Pelle di Luna che già era diventata un’attesa ancor prima di manifestarsi. Mancavano pochi chilometri ormai, aveva superato ogni automobilista un po’ lento, sfidato divieti, confini, permessi.
Si infilò una mano tra i capelli e sospirò tra una marcia e l’altra. Aveva chiuso con i pantaloni, d’ora in poi solo gonne svolazzanti, acerbe e gialle. Pomodori, limoni e bicchieri d’acqua fresca. In un infinito mondo trasparente di luccichii e diamanti vide la baita e mollò l’auto nel primo spiazzo disponibile. Lì tutto era disponibile. Gli alberi, i prati, le farfalle gialle screziate di nero e bianco, i leprotti che jump and jump fra i cespugli palpitanti sorpresi dall’affanno.
Lei che lanciò le zeppe su un ramo e corse, si, non con l’auto ma con le gambe, i piedi, le braccia, i capelli all’indietro, la maglietta blu appiccicata alla schiena per il sudore e i denti stretti. Lui che improvvisamente si vide nello specchio, bello per la prima volta e non  come se l’immagine di rimando risultasse demoniaca. Sollevò il colletto della camicia e si apprestò ad uscire. Divino segno della provvidenza, il sole sembrò farsi più vicino, gli angeli varcarono questo mondo e posero se stessi, gentili e premurosi  in un andirivieni felice e celestiale. Non ci fu bisogno di nulla: si videro da lontano e seppero.
Si strinsero l’uno all’altra come se si conoscessero da sempre appoggiando i profili, naso a naso, bocca a bocca, fronte a fronte. Si mossero impercettibilmente scivolando l’una sull’altro, bisognosi  di avvertire le rispettive essenze, miracolosamente soli. Giovinezza, salute, armonia, l’arte dell’istinto. Rimasero avvinghiati sazi e addormentati tra fiori bianchi e piccole api invaghite di nettare, un dipinto su una parete che fa sognare. Poi lei disegnò per lui e scrisse la loro storia mentre lui le medicò le ferite e la nutrì di pace, amore, bellezza. La posizione geografica di questo luogo non so quale sia, non è l’Irlanda ma nemmeno l’Africa, non è qui ne lì. Non è ne magia ne religione, è ancora altro, come il cosmo, i numeri, una cosa che fa parte di un’altra e un’altra ancora, una linea retta che non incontra mai un’altra linea retta, perché l’universo è questo, sorprendente, rivoluzionario, pazzesco. E se io sono te e tu sei me non possiamo evitare di danzare.