Diario di bordo - Il disagio non va mai in vacanza...

 Sin dagli anni sessanta sono entrati a far parte del nostro modo di esprimerci e nel lessico comune termini e frasi (ad esempio, sindrome del Vietnam, disturbo post‐traumatico da stress, sindrome di Stoccolma, etc.) per lo più legati alla moderna società dei consumi e all'avanzare del progresso tecnologico i quali hanno modificato (non sempre in meglio, purtroppo!) le nostre abitudini di vita ed i nostri comportamenti esistenziali, acuiscono sempre più malesseri dell'essere umano che sovente sfociano nel "disagio" psichico (e psicologico) trasformandosi spesso in malattia cronica e devastante tanto del fisico, quanto soprattutto dell'io. D'altra parte anche la medicina e la scienza sono progredite ed in particolare le branchie della psichiatria e della psicologia: non soltanto, però, come diretta conseguenza dell'altro progresso, quello dell'intera società, ma perché cercano di dare (ognuna nel proprio ambito ed ognuna a proprio modo e coi mezzi che hanno a disposizione) spiegazioni razionali (o razionalmente giuste), qualora sia possibile, ai fenomeni e di trovare rimedi per tamponarli al meglio o addirittura risolverli. L' Enciclopedia Treccani on line definisce lo stress come "la risposta funzionale con cui l'organismo risponde a uno stimolo più o meno violento (stressor) di qualsiasi natura";  a sua volta, Il dizionario di medicina stabilisce che questa natura possa essere: "microbica, tossica, traumatica, termica,  emozionale, etc.". La stessa Treccani, poi, indica che "i meccanismi dello stress sono stati descritti per la prima volta da Hans Seyle: lo stress è caratterizzato da due momenti, lo stimolo e la risposta. Il termine può indicare entrambi, generando una possibile ambiguità semantica. Per chiarirla, Seyle creò la parola stressor per indicare l'agente causale e mantenne la parola stress o stress response per indicare la condizione finale risultante". L'endocrinologo austro‐ungherese (era nato a Vienna nel 1907, quando la città era capitale dell'impero asburgico), poi naturalizzato canadese, nel 1926 affermò, infatti, nel suo più noto scritto ("Una sindrome prodotta da diversi agenti nocivi") che "lo stress possa essere una risposta aspecifica dell'organismo a qualunque richiesta". Esso, pertanto, è la risposta dell'organismo (in particolare quella parte del nostro corpo e del cervello definita sistema nervoso centrale) a sollecitazioni e cambiamenti esterni che possiamo definire "fisiologici", una reazione "emozionale" agli stessi. Non sempre, però, questi cambiamenti possono essere negativi (o nocivi, come li definisce Seyle) anche se le sollecitazioni al nostro corpo (e cervello) avvengono comunque e producono gli stessi, identici effetti: un lutto ed una perdita, ad esempio, lo sono; perdita del posto di lavoro (ed affannosità nel cercarne uno nuovo o trovarne uno per la prima volta) oppure di ingenti somme di denaro che possono modificare le proprie condizioni di vita lo sono, così come uno stato di conflittualità all'interno di un gruppo sociale o familiare; ma, al tempo stesso, possono non esserlo ‐ a mio modo di vedere ‐ azioni che in genere sono viste come "classiche" nel produrre stress (o meglio, possono essere viste anche come azioni non nocive, seppur producendo allo stesso modo stress) quelle del traslocare da un appartamento ad un altro, del trasferirsi in un altro luogo per qualsiasi motivo (lavorativo, affettivo, economico), oppure divorziare o separarsi da un partner, preparare un evento o prepararsi per un evento (ad esempio, il proprio matrimonio), attendere per qualcosa o qualcuno (ad esempio, la nascita di un figlio: spesso motivo di stress accentuato per il partner maschile piuttosto che per la donna), innamorarsi di una persona, etc. E' da dire, tuttavia, che esistono livelli di stress tollerabili (o, per meglio definirli, "fisiologici") i quali vanno manifestandosi (che si voglia o meno essi lo fanno, spesso, a prescindere dalla propria volontà: fanno parte del..."gioco" e non ci si può esimere dal subirli) nel corso dell'esistenza di ogni individuo. Quando questi, però, superano quel confine (ovvero, una linea immaginaria che nessuno, a dire il vero, conosce ed è difficile, a volte, da definire: perché, spesso, varia da individuo ad individuo e perché ogni individuo ha una risposta "individuale" e personale alle cose ed agli eventi) e un determinato livello di guardia, l'individuo stesso è incapace di superare lo scoglio psichico che li si frappone davanti o per lo meno, avendo bisogno d'un supporto esterno, non risulta essere in grado di farlo da solo: in quel caso si parla allora di Disturbo Post Traumatico da Stress (nella nomenclatura anglosassone è conosciuto con la sigla PTSD), altrimenti noto come nevrosi da guerra. Ma negli ultimi decenni (in particolare, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso), come già scritto, esso è stato associato anche a gravissimi eventi come atti terroristici o  criminali di straordinaria portata ed intensità emotiva (ad esempio, quando vengono prese in ostaggio persone), incidenti aerei (o navali, o ferroviari), cataclismi naturali (terremoti, inondazioni, maremoti), disastri ambientali (mi vengono in mente, a tal proposito, alcuni fatti di decenni passati: il disastro di Seveso, ossia l'incidente avvenuto nell'estate del 1976 nell'azienda Icmesa di Meda, in Lombardia, che causò la dispersione di una nube di diossina TCDD, sostanza chimica pericolosissima per ambiente e esseri viventi; il disastro di Bhopal, capitale dello stato indiano di Madhya Pradesh, avvenuto nel dicembre dell'84 nello stabilimento della Union Carbide India Limited a causa della dispersione di isocianato di metile, che causò migliaia di vittime; il disastro nella centrale nucleare di Chernobyl, località dell'Ucraina allora sotto il dominio sovietico, avvenuto nel 1986; i disastri nucleari di Three Mile Island, in Pennsylvania, e di Fukushima, avvenuti rispettivamente nel 1979 e nel 1986 negli Stati Uniti e in Giappone, etc.), epidemie e pandemie. In questa categoria, pertanto, rientra (o rientrerebbe) anche l'epidemia planetaria da covid‐19. Ma andiamo per ordine. Nel corso della Grande Guerra si parlava di "febbre da trincea" (o shell shock, in inglese): può definirsi come la madre di tutti gli stress post‐traumatici, il "ground zero" del genere anche se il termine disturbo post traumatico da stress non era apparso ancora "ufficialmente" nella terminologia psichiatrica. La cosa, tuttavia, era plausibilissima dal momento in cui si passò da una guerra di conquista (o corpo a corpo) ad una guerra di posizione o di attesa: in quel caso ancor più snervante, debilitante, devastatrice e stressante dell'altra per i protagonisti in campo tra i vari schieramenti militari. Infatti, è meglio (può sembrare paradossale ma non lo è affatto!) combattere piucché "attendere" un nemico che non si sa quando e come arrivi e forse non arriverà mai. Al proposito, mi vengono in mente due cose: la prima riguarda una scena del film "Orizzonti di gloria", diretto dal regista statunitense Stanley Kubrick nel 1957 ed a sua volta tratto dal romanzo omonimo di Humphrey Cobb, in cui un generale francese (Paul Mireau, il suo nome, interpretato dall'attore George MacReady) caccia dal suo reggimento un soldato che mostra segni di "squilibrio" e disagio (in realtà trattasi solo della reazione umana ‐ o umanamente plausibile ‐ di fronte alla precisa domanda di uccidere altri "nemici"). E' da dire, invero, che la pellicola è ritenuta dalla critica un caposaldo (oltre ad essere evidentemente un capolavoro artistico ed estetico della settima arte all‐times: ma questa è un'altra storia) dell'antimilitarismo e...nonché (soprattutto) una chiara denuncia della irresponsabilità degli alti comandi nella prima guerra mondiale. La seconda cosa riguarda un'altro film ed un'altra opera letteraria a cui esso fa riferimento e si ispira e da cui è tratto: "Il deserto dei Tartari", diretto da Valerio Zurlini nel' 76 (ultimo film del regista bolognese), in cui i soldati di un avamposto militare (la Fortezza, appunto) che si trova in un luogo puramente immaginario nutrono una sola speranza (per sfuggire/fuggire alla noia, all'inerzia, all'oblio e al tempo) che è quella di veder apparire all'orizzonte che si staglia innanzi a loro il nemico (o un nemico...i Tartari, nella fattispecie). Nel corso della seconda guerra mondiale si parlò invece di nevrosi traumatica da guerra.