Edgardo Palombi, maestro di tavola

Entro nella sala, riservata nel pomeriggio al ristorante ***, non il più lussuoso e costoso della città, ma comunque di buon livello.
I miei “allievi” sono già tutti presenti, o forse no. Se ne stanno sparpagliati per la sala a chiacchierare e sorseggiare l’aperitivo.
Sono giovani, fra i venti e i trent’anni, di varia estrazione sociale, ma tutti benestanti. Vengono ai miei seminari di convivialità per imparare a stare a tavola. Non nel senso di apprendere il bon ton, anche se quello che insegno si potrebbe anche definire tale.
Io non insegno quali posate e quali bicchieri usare, a seconda dei piatti e delle bevande.
Elargisco invece perle di saggezza riguardo a come si sta insieme agli altri intorno a un tavolo, imbandito o meno.
Avete presente quelle tavolate, soprattutto se numerose, dove l’atmosfera dovrebbe essere di allegra convivialità, di rilassato piacere, di gioiosa interrelazione?
E avete presente quando, nella improvvisata e insufficiente realtà, ci si trova invece seduti, circondati da persone che non “combinano” fra loro?
È una questione di educazione, di entusiasmo, e di tecnica. Io insegno questa tecnica.
Prima regola: se ci sono delle coppie, devono separarsi, non devono stare gomito a gomito, sennò finiscono per abbracciarsi e tubare fra loro, escludendo il resto della compagnia, provocando una scissione, una barriera che interrompe il fluire della convivialità.
E nemmeno devono sedersi uno di fronte all’altra (o altro, non siamo certo omofobi), altrimenti si perdono occhi negli occhi, magari sotto il tavolo piedi fra i piedi, ed è come stendere la rete in un campo da tennis; si creano due versanti, due campi separati, se siedono in mezzo, oppure si crea come un fondo, una direzione morta a un estremo della tavola.
Seconda regola: maschi e femmine non devono formare gruppi compatti. Non siamo in una chiesa del secolo scorso, siamo qui per interagire e favorire l’interazione fra le persone.
Terza regola: ognuno deve scambiare parole, gesti e sorrisi con tutti i presenti. Non sono ammesse antipatie manifeste o preferenze esclusive.
Sono solo tre regole semplicissime. Due di pura strategia dispositiva, l’altra di semplice cortesia, ma che applicate cambiano volto alla dimensione conviviale.
I giovani qui presenti dovrebbero essere 22 più il sottoscritto, mi vedono arrivare e si zittiscono un attimo. Io li saluto con un generoso sorriso e li invito a sedersi, rispettando la prima e la seconda regola.
Per qualche secondo c’è un certo trambusto, com’è usuale quando molte persone, per quanto educate, spostano sedie e prendono posto. Fra risatine, battute e qualche moina si dispongono attorno al desco.
Bene, fra maschi e femmine c’è un discreto equilibrio numerico. Già a vederli, così ben miscelati, si capisce che ci saranno più occasioni di contatto che non se si fossero seduti secondo le abitudini e le attitudini convenzionali.
Per stare bene a tavola, con altre persone, bisogna averne voglia innanzitutto. Inutile andare a una festa se si ha intenzione di tenere il broncio. Inutile accompagnarsi a molte persone se si vuole stare soltanto con il proprio partner o isolarsi in profonde riflessioni solipsistiche.
Il cameriere viene a prendere le ordinazioni, ci vuole parecchio tempo. Dopodiché, si prosegue a sorseggiare l’aperitivo e a gustare stuzzichini.
La mia funzione non è di pormi come un docente, o un giudice. Io sono qua alla pari degli altri, uno fra tanti. Semplicemente, osservo lo svolgersi della cena e vi partecipo. Faccio qualche commento, qualche appunto, a volte prendo anche qualche nota scritta, per sottoporla a fine serata agli allievi.
Le mie doti dialettiche, la mia naturale socievolezza, l’arguzia che mi contraddistingue fin da giovanissimo, nonché la mia esorbitante cultura, mi permettono di partecipare a qualunque simposio o convivio senza problemi, anzi con la certezza di dare un contributo significativo.
Uno degli allievi ha iniziato a tenere un comizio su una questione di attualità. Scrivo un bigliettino e glielo faccio avere, passando di mano in mano. La regola è che solo il destinatario deve leggerlo. Gli giunge la missiva, la legge sottecchi e calmiera il suo furore oratorio. Non è bello catalizzare l’attenzione di tutti sulle proprie convinzioni, non siamo qui per fare competizioni oratorie o proselitismo.
A tavola tutti i discorsi sono, anzi devono essere, ben accetti. Escludendo le sconcerie eccessive e sgradevoli.
Un altro giovane ha appena raccontato una barzelletta, evidentemente buona, perché metà della tavolata e scoppiata in una fragorosa risata. L’altra metà non ha sentito e non ha potuto godere del momento ludico. Invito tutti a fare un attimo di silenzio e il ragazzo a ripetere la storiella a beneficio di tutta la brigata. Il momento ludico si raddoppia.
Una coppia di ragazze, evidentemente molto amiche, sta cercando di comunicare, da un capo all’altro della tavolata, gridando e facendo gesti ampi ed agitati. Le rivolgo un’occhiata perplessa, subito pongono fine all’assurda conversazione a distanza e prestano attenzione ai vicini.
Squilla un cellulare, uno dei più adulti della combriccola, controlla chi sta chiamando, chiede scusa e si alza, allontanandosi verso l’ingresso per non disturbare. Molto bene, apprezzabile educazione spontanea, doppiamente encomiabile in questi tempi di volgare cicaleccio tecnologico, impudente e menefreghista.
La cena prosegue, di portata in portata. Le vivande sono di ottima qualità e contribuiscono a generare buon umore. Il chiacchierio ha i suoi periodi, i suoi alti e bassi, i momenti di intensità e quelli prossimi al silenzio. Una tavolata ben vissuta non rimane mai in completo silenzio e non eccede mai nel fracasso e nel chiasso corale.
Suona un altro cellulare, una ragazza controlla e spegne l’apparecchio. Bene, brava, così si fa. Se non è importante, quando si è con altre persone si deve rimandare il contatto.
Arrivati al dessert, gli sguardi sono già più intorpiditi per le libagioni abbondanti e lo spirito si fa dolcemente eccitato. Arrivati a questo punto, il fervore conviviale ha fatalmente una flessione, è fisiologico. I discorsi si fanno più pacati, anche privati. Ognuno tende a rinchiudersi in una comunicazione privata con il vicino, magari confidenziale. È normale. Provvedo quindi ad evocare un brindisi, per chiudere in bellezza la cena. Un ultimo artificioso slancio comunitario, per non far decadere il convivio nell’apatia. Il caffè e gli amari suggellano l’esperienza gastronomica e sociale.
È il momento del conto. Si è stabilito prima che si paga “alla romana” ognuno per sé. Questo non vuol dire che ognuno tira la somma di ciò che ha consumato, magari con la calcolatrice. Si fa la media, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Niente sarebbe più triste che finire una cena con conti e riporti, resti e competenze.
Bene. È andata bene. Ci alziamo e prima di uscire, invito i ragazzi a rimanere un attimo, in piedi, intorno alla tavola ed esprimere le loro impressioni. Chi più chi meno si dicono sorpresi piacevolmente. Effettivamente la cena ha avuto un decorso più agile, è stata più proficua e piacevole per tutti. Nessuno è rimasto escluso, nessuno ha fatto il capo banda. La lezione era proprio questa, mostrare come, con pochi accorgimenti e un po’ di buon senso ed educazione, anche una semplice cena riesce a dare il meglio di sé.
Missione compiuta. Usciamo e ci salutiamo. Qualcuno mi domanda se è possibile fare un’altra riunione conviviale, avrebbe delle persone a cui mostrare l’efficacia dei miei precetti. Do ovviamente la mia disponibilità.
Torno a casa in taxi, dopo una cena abbondante, con altrettanto abbondanti bevute, non c’è niente di più piacevole che farsi scarrozzare, intorpiditi e rilassati, da un autista professionista.
Passando davanti a un ristorante, noto un folto gruppo di persone che ha appena finito di cenare. Si salutano di malavoglia, alcuni sbadigliano, altri fanno la faccia disturbata. È chiaro che questo gruppo avrebbe bisogno di una lezione del professor Edgardo Palombi, Maestro di tavola.