Il campanello

Suonerà. Prima o poi. Lo so. Io aspetto.
Seduto su questa poltrona, in questa piccola sala d’aspetto, inganno l’attesa giocherellando con le dita. Tamburello sui braccioli, percorro le pieghe del mio abito, ravvio i capelli.
Mi è stato detto che quando il campanello suonerà dovrò entrare per quella porta bianca.
C’è un orologio appeso al muro, rotondo, semplice, silenzioso. Anche nel silenzio ovattato della sala d’attesa, devo tendere l’orecchio per avvertirne i tenui ticchettii.
Mi costringo a non guardare l’ora, i minuti che scorrono lentamente, quasi come se il tempo abbia rallentato volutamente, per farmi assaporare l’attesa.
Ci sono alcune riviste sul tavolino davanti a me, ne sfoglio qualcuna, sono tutte vecchie di un anno e più. Chissà perchè nelle sale d’attesa le riviste sono sempre vecchie, come se veramente il tempo si fermasse fuori dalla porta.
Sono i soliti rotocalchi, gossip, belle ragazze, storiacce, pretese di miracoli popolari, assediate dalla onnipresente pubblicità.
Per ingannare l’attesa mi immergo nelle mie fantasie, immagino come cambierà la mia vita quando il campanello suonerà. Lo so che non dovrei farlo, porta sfortuna anticipare gli eventi con l’immaginazione. Ma è inevitabile.
Quando varcherò quella porta bianca, con la maniglia dorata, non sarò più quello che sono adesso. Non sarò più un uomo in attesa della sua occasione. Sarò un membro attivo della società, un elemento attivo e produttivo. Avrò una posizione riconosciuta e riconoscibile.

Penso a cosa è stata la mia vita finora, e desidero soltanto lasciarmela alle spalle. Considero questi anni passati a studiare, cercare, frequentare, come il preludio alla vera vita, fatta di azione, di rapporti, di costruttività. Ho faticato tanto sui libri, ho viaggiato un po’, per quanto potevo permettemi, in modo da ampliare le mie cognizioni, le mie idee.
Sono anni che attendo questo momento. Anche se adesso devo stare seduto qua per mezz’ora, un’ora, o due ore, è una bazzecola. Devo solo rilassarmi, concentrarmi, ripassare tutto quello che devo dire, come devo comportarmi. Non posso sbagliare. Non devo sbagliare.
Va bene, un’occhiatina all’orologio, tanto per resettare la percezione del tempo. Sono qui da venti minuti. E già ho fatto il giro di tutta la mia vita passata, e percorso un buon tratto della mia vita futura. Le aspettative.
Peccato che ormai non si possa più fumare nei luoghi chiusi. Una sigarettina mi riconcilierebbe con il mondo, renderebbe l’attesa meno nervosa.
Mi mangio una caramella alla menta. Meglio che niente. Così avrò l’alito profumato durante il colloquio. L’ho imparato da tanto tempo questo particolare importante, se devi parlare con qualcuno devi avere l’alito profumato. Cambia tutto. La fiatella è la causa del fallimento di innumerevoli colloqui, di lavoro, d’amore, d’amicizia. Cosa c’è di più sgradevole che avere davanti qualcuno che quando apre bocca ti appesta con il lezzo proveniente dalle sue viscere?

Me la mastico con lenta sensualità, assaporo a fondo il bruciore delle papille gustative, quasi una scarica di adrenalina, schiarisce la mente.
Chissà che suono avrà il campanello. Sarà squillante, mi farà fare un salto sulla poltrona, oppure sarà un sommesso ed educato suono di campana tubulare?
Ecco continuo a distrarmi, invece di rimanere concentrato sul colloquio, la mente non smette di correre avanti e indietro, di rimbalzare da un’aspettativa a un ricordo, da una frase da dire a parole affioranti a caso dalla distesa ribollente del passato.

Non mi sarò mica estraniato troppo, come mi succede spesso? Il campanello avrà mica suonato? Magari ha un fatto solo un debole tocco argentino, e io, immerso nelle mie elucubrazioni, non l’ho sentito?
Ecco. Adesso divento ansioso. Che ora è? Sono qui da quaranta minuti. L’attesa inizia a diventare un po’ lunga. Ma lo fanno spesso ai colloqui. Credo sia una strategia preliminare, per vedere se il soggetto è dotato di pazienza e umiltà. Per vedere se è realmente motivato.
Ne ho fatte tante di ore di anticamera nella mia vita. In senso letterale e in senso metaforico. A volte mi sembra di aver vissuto sempre in attesa, seduto su una poltrona, o una sedia, o un divano.
Possono farmi aspettare anche due ore, io non mi lascio innervosire. Non più di quanto lo sia normalmente. Ormai ho sviluppato una specie di voluttà dell’attesa. Anche agli appuntamenti arrivo sempre in anticipo, per godermi l’attesa, che spesso con le sue fantasiose invenzioni, è più piacevole di ciò che viene dopo. Ho imparato anche a godere delle ipotesi, degli immaginari sviluppi di un appuntamento. Almeno, se poi le cose non vanno bene, mi sarò regalato qualche minuto, o quarto d’ora, di sogni ad occhi aperti.

Ci sono ricascato. Mi sono di nuovo distratto. E il campanello avrà mica suonato? C’è troppo silenzio qua, la mente se ne fugge via dal vuoto, i pensieri fanno baccano per tenere desta l’attenzione.
Mi alzo, mi sgranchisco un po’. Se entra qualcuno non voglio farmi trovare accasciato sulla poltrona come un sacco. Magari entrasse qualcuno. Mentre mi stiro le braccia e le spalle, mi guardo intorno, immagino sempre che in queste sale d’attesa ci sia una telecamera nascosta, dalla quale le persone che stanno dall’altra parte della porta osservano, analizzano, valutano. E poi decidono se suonare il campanello.
Un’ora. Io sono una persona paziente, ma credo che far aspettare troppo gli altri sia una gran maleducazione. Altro che espediente valutativo. Qui si tratta di pura e semplice arroganza e maleducazione. O disorganizzazione. O dimenticanza.
Non si saranno mica dimenticati di me?
Azzardo un passo verso la porta bianca. Ma non posso bussare e mettere il naso dentro. Sarebbe contrario a qualunque regola. Oppure mi affaccio dalla porta da cui sono entrato. La segretaria sarà seduta dietro la sua postazione, magari a limarsi le unghie, o a leggere uno di questi vecchi rotocalchi.
Però sarebbe un passo falso, come dire : mi sto stancando dell’attesa. Anche lei fa parte del gioco. Potrebbe essere la mossa che mi mette fuori partita. Vogliono testare la mia pazienza. Va bene, ho sopportato ben di peggio che una lunga attesa in anticamera.

Un’ora e mezza. Adesso è veramente troppo. Ne ho fatti di colloqui in vita mia. Quando si ritarda oltre un certo limite, si dice. Si danno spiegazioni. Si chiede scusa per la dilazione e magari si offre un caffè, si fanno due chiacchiere, due convenevoli. Bisogna anche saper trattare l’ospite, un’abitudine che si sta perdendo sempre di più, nella vita privata come in quella pubblica.
Adesso mi affaccio dalla segretaria, le dico che dovrei andare in bagno. Legittimo.
La maniglia si girà con un cigolìo perforante e grottesco. Forse il silenzio pneumatico di questa ora e mezza ha acutizzato le mie orecchie. Fa niente.
Guardo in direzione della reception. La ragazza non c’è. Sarà andata in bagno? O forse è stata chiamata dal capo, magari le stanno dicendo di suonare il campanello e farmi entrare. Torno di corsa nella sala d’attesa, badando di non far rumore. Ma su questa moquette spessa due dita non c’è pericolo. La maniglia cigola di nuovo, infida.

L’inutile sortita mi fa sentire come un malandrino, o un maldestro intruso, comunque come uno che non rispetta le regole.
Mi rimetto seduto sulla poltrona. Ecco. Bel bello, come se fossi appena arrivato. Fresco come un fiorellino e pronto ad esibire il meglio della mia personalità.
Certo che quest’ufficio è il meno frequentato che abbia mai visto. Oppure è insonorizzato alla perfezione. Non si sente volare una mosca, trillare un telefono, tacchettare una segretaria.
Mi rassegno a questa insipiente attesa. Assurdo che le aspettative di una persona siano avocate a questa pratica stressante e inutile. Sarebbe meglio se qualcuno ti chiamasse all’improvviso, senza preavviso, e ti dicesse : “prego, venga, c’è questo lavoro da fare e abbiamo pensato che lei sia adatto”.
Due ore. Maledizione. Magari gli si è guastato il campanello. Di là spingono come matti su un bottoncino, credendo di far suonare sto maledetto cmpanello, e invece non succede niente. Si è staccato un filo. E magari pensano che io mi sia addormentato, o che me ne sia andato.
Pensieri stupidi, lo so. Impossibili. Qualcuno verrebbe a controllare perchè non ho aperto quella maledetta porta bianca e non sono entrato.
Certo che sono dei bei maleducati e arroganti in questo posto. Non che sia una novità, ne ho visti di ogni tipo, colore e sesso, di capi e capetti e caporioni. Pensano veramente che il tempo degli altri non valga un cazzo. Mi sto arrabbiando.
Non devo arrabbiarmi. Mi conosco. Mi si legge in faccia al primo sguardo, se mi girano le balle. Mi brucerei il colloquio e l’opportunità in due secondi. Dopo due ore di attesa. Due ore e dieci và.
Insomma. Quanto rimango in attesa, senza fare nulla, senza riprovare a beccare la segretaria e chiederle se si sono dimenticati di me?
Dovrebbero scrivere una legge apposta, che regoli i tempi e i modi di attesa ai colloqui. Non più di mezz’ora. Dopo la quale, o si viene ricevuti, o si riceve un indennizzo. Ecchecazzo!

Ci casco sempre. Sono un tipo polemico. Chissà quante altre persone se ne starebbero buone buone, sedute composte, a sfogliare giornalacci di merda, senza battere ciglio. Anzi, gongolando dentro di sè per la bella opportunità che hanno. Forse è questo il mio problema, penso di avere diritto ad un trattamento particolare, più gentile, più disponibile. Naaa. Ne ho visti talmente tanti di uomini e donne, arcigni, acidi, cattivi nel profondo, fastidiosi e dannosi come zecche. Eppure inamovibili e promuovibili. Il mondo va storto, ecco la verità. Prosperano gli stronzi e i cialtroni, gli arroganti e i malversatori. Mentre le brave persone passano ore inutili, in inutili anticamere, in attesa di colloqui inutili, per lavori inutili.

Ci casco sempre, non c’è niente da fare. Mi prende la rabbia, la demotivazione, la ribellione. È più forte di me. Se quel cazzo di campanello suonasse ora, entrerei da quella fottuta porta bianca, li guarderei in faccia, e li manderei a fare in culo. Schifosi bastardi arroganti.

Azz! Ha suonato! No, forse mi sbaglio, era il telefono della segretaria. Non è poi così insonorizzata questa sala d’attesa. Era uno squillo di telefono sì? Io entro. Dico che ho sentito uno squillo. Legittimo. Sì vado.

Busso? Sì busso và. Discretamente. Educatamente. La porta si spalanca quasi da sola, come se fosse sospesa su cardini oliati e premurosi. Non c’è nessuno. Io sono qua da due ore e mezza. E non c’è nessuno.
Adesso mi girano veramente. Torno nella sala d’attesa, la attraverso a lunghe falcate. Apro l’altra porta e vado alla reception. Neanche la segretaria c’è. Ma che cazzo di posto è?
Mi avventuro per un corridoio. In fondo a destra ci sono le toilettes. Bene. Una sana pisciata ci vuole, la vescica mi preme da più di un’ora. Fottuti bastardi.
Belli i bagni però. Tutti lustri e lussuosi. Profumati.
Esco dalle toilettes, la segretaria mi viene incontro sorridendo imbarazzata. Mi chiede scusa per l’inqualificabile ritardo, ma il suo capo ha avuto un incidente con la macchina. È all’ospedale, grave.
Il suo sguardo corrucciato è convincente, sembra sinceramente afflitta e preoccupata. Io la guardo a mia volta, con la rabbia che si scioglie nella compassione. Mi sento stupido. Stupido e cattivo.