La lunga morte di Ercole, Duca di Fossostretto

Il nobile Ercole Amedeo Duca di Fossostretto, si è ritirato in convento, essendo giunto agli ultimi giorni, o mesi, di vita.
Non per l’età, che ha da poco superato i quarant’anni.
La malattia che lo ha colto, nel fiore della maturità, non lascia scampo.
I cerusici non conoscono rimedio alcuno al male che lo affligge. Hanno decretato che il cancro che lo divora, se lo porterà via in breve tempo, poche settimane.
Così Ercole, uomo di straordinaria energia fisica e mentale, condottiero di armate e amante vigoroso, come l’eroe semidivino di cui porta il nome, ha deciso di passare il breve tempo che gli resta, chiuso nella cella di un convento, tra l’umiltà e la semplicità dei frati francescani.
Un giovane novizio gli è stato assegnato come domestico.
Lui, che possiede castelli, palazzi, boschi e campagne, è ridotto ad avere come unico servo un imberbe fanciulletto.
Il duca ha dato disposizione che nessuno venga a disturbare la sua fatale attesa, la sua agonia silenziosa, né per affari di Stato né per affari di famiglia. I consiglieri, la sua devota moglie Isabionda, il padre e tutti i suoi congiunti, sapranno ben governare i possedimenti.
Ercole si sente svuotato delle proprie forze, come se un demonio gli avesse prosciugato l’energia vitale. Non prova dolore alcuno, a parte un certo affanno al petto, che diventa soffocante se prova a sforzare i movimenti.
Il primo attacco, di questo male oscuro e silenzioso, lo ha subìto mentre cavalcava verso il suo castello, al ritorno dalla campagna contro i briganti di Montecuzzolo.
Appena un mese prima.
Il nobile condottiero se ne sta sdraiato sul lettuccio di paglia, nell’ombra della sua celletta. Ode i rumori del lavoro dei frati, all’esterno. Un pacato e ritmato scavare di zappa dall’orto. Un tranquillo sfregare di raspa dalla falegnameria. Il cigolio di un carretto a mano, dalla strada.
A distanza cadenzata, il suono gentile e pulito della campanetta, gli conta le ore che passano. Quando è tempo di orazioni, l’odore dell’incenso invade magnificamente la sua cella, insieme al canto basso e pacificatore dei frati. Si sente nell’anticamera di Dio. In attesa dolce e serena di tornare fra le Sue onnipotenti e amorevoli braccia, ben più possenti delle sue, che pure hanno sconvolto non poche urbe e stretto una moltitudine di fanciulle.
Ripensa alle sue gesta, il duca, che già gli paiono lontane nel tempo e nello spazio. Eppure l’ultimo sangue lo ha versato meno di 40 giorni prima, sul crinale nord di Montecuzzolo, dove il suo esercito ha stretto in un canalone Nerofumo e tutta la sua banda di tagliagole.
Il capo dei briganti, noto per la sua efferata crudeltà, impazzava da anni nelle lande montuose della regione, era tempo di porre fine alle sue malefatte.
Nerofumo, uomo di non comune statura, seppure magro e legnoso come un cipresso, aveva fama di potente mago, oltre che sanguinario brigante. Solo per questa ragione nessuno aveva osato braccarlo veramente. Tutti i vassalli della regione si limitavano a inseguire le sue bande fino ai propri confini, finché giunti alle montagne, lasciavano perdere la caccia, ben lieti di tornarsene a casa loro.
Ma Ercole non poteva sopportare che quegli straccioni, per giunta eretici, continuassero a depredare le sue terre. Era giunta l’ora di appendere Nerofumo per il collo, come la legge degli uomini e di Dio imponeva.
Quando, dopo l’inseguimento e la battaglia, il lungo e segaligno brigante fu appeso con la corda al collo ad una grossa quercia, in una radura tra Val del Giusto e la vecchia Via Romana, Ercole e i suoi soldati gridarono di orgoglio e di giustizia compiuta.
Nei suoi ultimi rantoli, Nerofumo sputò le sue maledizioni all’indirizzo del Duca. Non si capì nulla delle sue parole, ormai la corda gli stava stringendo in gola i suoi ultimi blasfemi insulti.
Sulla via del ritorno, a due giorni dall’esecuzione, a mezza strada per il castello, Ercole avvertì un senso di affanno al petto, che mai aveva provato in vita sua.
La stanchezza lo faceva cavalcare lentamente. I suoi sergenti nulla sospettarono, godendosi il tranquillo rientro verso casa.
Giunta l’ora del vespro, il duca ordinò di accamparsi in riva al torrente. Nella notte il male lo assalì con malefica protervia.
Giunse al castello in lettiga. I sudditi lo credettero ferito in battaglia. Ma quando si seppe dello strano male che lo affliggeva da due giorni, il popolo e i cortigiani rimasero stupefatti che un pezzo d’uomo come lui, potesse ridursi a tal meschino sembiante non per colpa del ferro, ma di un qualche male di stagione.
Fatto sta che il duca non si riprese più. I cerusici mandarono a chiamare altri cerusici, e questi altri ancora, più famosi di loro. Nessuno parve in grado di trovare una cura per il grande soldato.
Sdraiato sulla paglia, con indosso soltanto le brache, un camicione di flanella e avvolto nel mantello scuro, Ercole pareva un eremita, smagrito e pallido. Ma la sua mente stava conquistando una forza prima sconosciuta. Non più impegnata nelle questioni di governo o nei piani di battaglie, vagava senza meta per le vie dei ricordi e per i sentieri dell’immaginazione.
Passando continuamente dal torpore della malattia al sonno, Ercole viveva quei suoi ultimi giorni in uno stato quasi di grazia, sentendosi egli uomo giusto e retto, servitore di Dio e del suo regno.
Il giovane novizio lo disturbava il meno possibile, soltanto per farlo mangiare e per lavarlo. Il priore lo veniva a trovare ogni giorno, nell’ora quarta, per informarsi sulle sue condizioni e le sue necessità; ma il condottiero non aveva richiesta alcuna, se non che pregassero un po’ per la sua anima.
Passo così una settimana, senza che il duca migliorasse o peggiorasse. E poi un’altra ancora. Giunse un messo dal castello a informarsi sulle sue condizioni, ma nulla di nuovo v’era da riferire.
L’inverno iniziò e si fece rigido. La neve cadde su tutta la regione. Nelle campagne deserte volavano soltanto i corvi, a caccia di cibo. Nelle case ognuno badava ai suoi affari e si cullava nella stagione del riposo.
Al castello la vita era continuata come sempre, gli affari di corte tenevano impegnata la duchessa Isabionda e i suoi consiglieri.
Ercole passava ormai da due mesi dal sonno al torpore, come si è detto, senza che il suo male si aggravasse e senza segni di miglioramento.
Arrivati all’approssimarsi della Primavera, dalla corte ducale giunse ancora un messaggero, ma nulla di nuovo vi fu da riferire. Al castello i preparativi per i riti funebri erano stati approntati da tempo. Ma alla cerimonia mancava il cadavere.
Con la bella stagione, la vita riprese, anche nel convento i rumori si fecero più intensi, le giornate lunghe e luminose. Ma le condizioni del duca non cambiarono in nulla. Se si alzava dal giaciglio, un giramento di testa lo faceva barcollare. Una semplice passeggiata nel chiostro lo affaticava oltremodo. Il cibo non gli era di nessun conforto e beneficio.
Ercole si rassegnò ad una lunga agonia, in fondo neppure sofferta, visto che a parte la stanchezza, le vertigini e l’affanno, non avvertiva dolore alcuno.
Gli venne in mente che forse Dio non lo voleva con sé. E si mise a ricordare tutto ciò che gli riusciva della sua vita intensa e avventurosa. Certo, aveva ucciso, ma senza mai godere nel farlo. Aveva amato molte donne, ma era normale a quei tempi, per un nobile. Nulla che una semplice confessione e penitenza non potesse rimediare.
Si domandava quindi il perché di quella insolita, lunga e indolore agonia.
I mesi passarono, i cerusici vennero richiamati, per capire cosa stesse tramando il male che debilitava il duca, ma nulla più della prima diagnosi fu possibile, ai dotti maestri, emettere.
Ercole ribadì il suo ordine, che nessuno lo cercasse e lo disturbasse, per nessuna ragione. Se Dio voleva farlo attendere così a lungo nell’anticamera della morte, che fosse rispettata la Sua volontà. Non sarebbe stata certo la sua la peggior sorte del mondo.
Il grande soldato, immaginò che, da uomo d’azione quale era stato per tutta la vita, adesso Dio volesse imporgli quella lunga, insipiente agonia, perchè imparasse la pazienza e la sopportazione, e per dargli modo di meditare a fondo sulle vie dell’espiazione.
Passò un anno intero e il duca non morì.
Ne passarono altri due, ed Ercole non dava segni né di guarire né di morire.
Al castello e in tutto il regno, ci si dimenticò dell’agonia del duca. Egli rimase sempre nel convento, quasi sempre sdraiato nella sua celletta, assistito dal novizio, che era ormai divenuto frate, e poi bibliotecario e infine, dopo vent’anni, priore a sua volta.
Nessuno seppe che fine fece Ercole, duca di Fossostretto.
Nessuno seppe mai della sua morte, nessuno compì le sue esequie. Nessuno conosce l’ubicazione della sua tomba.
Il convento non esiste più. Le guerre e i rivolgimenti che seguirono quegli anni, hanno cambiato il mondo.
Rimane solo la leggenda, del duca Ercole e della sua ultima impresa, la caccia al brigante Nerofumo. Di cui si diceva fosse un grande stregone oltre che sanguinario bandito.