Estate Indimenticabile

L’estate arriva tutti gli anni con la stessa cadenza precisa.
Quest’anno fa un caldo spaventoso. La città si va svuotando di giorno in giorno e pare incline alla vulnerabilitàcon i muri dei palazzi incandescenti. Il sudore appiccicoso nei corpi trova un attimo di benessere in una doccia. Poi tutto ricomincia.

(Solo due giorni) pensa Osvaldo quella mattina quando si alza (due giorni ancora da tribolare prima di andare in vacanza).

Serena è già su di giri. La depressione post‐partum l’ha resa irritabile. Passa da dei momenti di grande esaltazione a dei momenti di assoluta abulia.

‐ Fortuna che non allatta i gemelli ‐ ha detto il pediatra.

Del resto un figlio lo desideravano da dieci anni e se con la procreazione assistita in Spagna ne sono nati tre portando uno scompenso e una gioia che corrono parimenti. In qualche modo è passato quasi un anno. Dieci mesi per l’esattezza hanno i tre moschettieri. Tre maschietti che ti fanno correre di notte e di giorno.

Serena ha la casa sottosopra, malgrado vi sia la ragazza che al mattino la aiuta. Pannolini sulle sedie, le valige aperte in salotto già quasi riempite. C’è da portarsi via la casa, un trasloco vero e proprio per stare un mese al mare. Almeno in Sicilia ci sono i genitori di Osvaldo a dare una mano.

A Lambrate è un disastro. Tocca pagare una donna e siamo solo a metà della giornata, poi Serena arriva a notte inoltrata con i nervi a pezzi e si danno il cambio per dormire lei e Osvaldo, perché chi non avesse avuto tre figli contemporaneamente, non può capire.

I primi mesi sono stati un incubo: uno si addormentava e l’altro si svegliava e se per un puro miracolo i due più tranquilli si quietavano, c’era sempre lui, Lorenzo, il più “vecchio”, il “terrorista” come lo chiama teneramente sua madre.

Ci vorrebbe una persona solo per lui. Seguirlo è un’impresa; non stà mai fermo, sembra avere un sistema nervoso a prova di bomba. Bello come il sole, ha una vitalità sorprendente.

Devi avere mille occhi, cento orecchie, cinquanta mani.

Alessandro e Marco sono come dire, più pacati, meno impegnativi.

‐ Ma ci devi andare per forza in ufficio stamattina? ‐ sussurra Serena ferma al centro della stanza con una mano sulla fronte e lo sguardo fisso sulle valige aperte. ‐ Faccio un salto ma non dovrei metterci più di tre ore. Arriva fino a dove arrivi, quando torno ti do una mano anch’io. Anzi, sai cosa faccio, porto Lorenzo con me.

Vero che viene con il suo papà a lavorare? ‐ dice prendendolo fra le braccia.

Serena torna a sorridere, guarda di striscio Osvaldo e glielo si può leggere negli occhi quel: “Grazie amore”.

Uscendo con Lorenzo in un braccio e la valigetta porta documenti nella mano, le sfiora con la punta del naso la guancia, si protende verso di lei allargando le braccia impegnate, Lorenzo attaccato al collo.

‐ Bacio, ehi, bacio ‐ è bello guardare questa coppia da fuori. Hanno un grande senso di solidarietà, soprattutto Lui, il marito, è preoccupato per lo stato di salute di Serena.

Lei risponde con un bacio che scrocchia sulla guancia rasata di fresco e sistema il ciuccio sulla bocca di Lorenzo.

 ‐ Fa il bravo con papà ‐

Il bambino è sistemato sulla sua poltroncina salva vita, nel sedile posteriore del fuori strada nero e l’aria condizionata non fa che mantenere quel bel fresco dell’auto rimasta in garage durante la notte.

Al bivio in direzione Milano centro, Osvaldo rallenta e imbocca il lago d’asfalto già rovente a quell’ora. Tir feroci come animali preistorici e macchine dal muso di pescecane che superano sulla destra a velocità folle. Lunghi parallelepipedi di fabbriche e centri commerciali. Osvaldo accende la radio e d’un tratto uno schianto terribile davanti a lui lo fa zigzagare. Riesce a frenare, con uno scarto a gomito supera  il tir che ha tamponato la monovolume di fronte.

Tira dritto, non si ferma e dallo specchietto retrovisore vede un fumo nero che esce dalle lamiere contorte nello scontro. Non ha nessuno dietro. Si è formato un vuoto inquietante.

Un serpentone di auto si sta formando  e la gente è scesa per soccorrere.

(Diosanto, come ho fatto a schivarli? Perché non mi sono fermato? Qualcuno c’ha lasciato la pelle. Perché ho tirato dritto?)

‐ Perché anche se non lo vuoi ammettere hai una fretta boia di farti i cavoli tuoi. La vacanza è più importante di qualunque altra cosa ‐ gli risponde la voce bastarda che alberga chissà in quale anfratto della sua mente.

(E’ stata una questione di secondi. Potevo entrarci anch’io  in quell’ammasso di rottami. Non so neppure la dinamica, non mi ricordo nulla se non quello schianto e la virata che ho impresso al volante)

‐ Sì, ma dopo hai visto quello che era successo? Perché non ti sei fermato?

E’ petulante la voce del nostro sottofondo esistenziale, è tremendamente odiosa, ci rinfaccia ogni minima colpa, ci inchioda con mille accuse. Poi è una lavoro che dura anni, mesi a rimuoverle, a volte ti convince davvero che non vali nulla, che sei solo un banale vigliacco o un egoista come in questo caso.

(E se qualcuno mi avesse visto? E’ omissione di soccorso. E’ un reato penale, cazzo!)

‐ Non ti ha visto nessuno. Non c’è stato il tempo di realizzare il tuo gesto. Lo schianto ha bloccato l’attenzione sul tir e l’auto che incendiava. Figurati.

Sa essere anche complice questa voce che miagola dentro. Ti confonde. Prima ti accusa, poi ti rassicura. Non c’è da fidarsi di questa voce. Devi imparare ad essere implacabile con te stesso; obbiettivo.

Non riesce a togliersi la scena dalla testa Osvaldo. La macchina va per la strada come se il motore avesse memorizzato le curve, i semafori gli incroci. Come se un pilota automatico fosse uscito da lui stesso e pensasse a mettere le frecce, rispettasse i divieti e i sensi unici.

E’ una scena che si srotola da una pellicola, in continuazione, non lo molla più.

Il pilota automatico che è dentro alla sua mente, parcheggia sotto un albero con delle fronde che paiono una capanna. L’ombra gli entra negli occhi finchè parcheggia.

L’ombra dei morti su quell’auto lo insegue, gli si adagia dentro la fronte e lì resta stesa.

Lo svuota di ogni forza.

Adempie meccanicamente a dei lavori svolti per centinaia e migliaia di volte. Fax, numerazione fatture. Fascicolazione. Poi saluta stando con la testa in quel lago di cemento dove gli si è inceppata la memoria.

‐ Buone vacanze anche a lei ‐ gli risponde la ragazza del centralino mentre esce dall’ufficio.

Ed è allora che vede la sua fuoristrada sotto il sole dell’una. Guarda l’orologio e atterra nuovamente sulla terra. Sono passate tre ore. Il sole ha fatto un giro, come il vento, ha dirottato i raggi e anche l’albero con la chioma che pare una capanna ha impercettibilmente abbassato i rami che guardano l’asfalto.

‐ Lorenzo ‐ gli urlano tutte le voci dei suoi organi sensoriali che sono tornati in vita.

E’ una corsa al rallentatore verso il fuoristrada scuro. Un gioco di dita che stringono l’apriporta elettrico e il bip di chiusura e apertura lampeggia due volte prima che il sensore accetti tutta quella fretta spasmodica.

Lorenzo è seduto sulla sua poltroncina salvavita, la cintura di sicurezza ancora di traverso sul pagliaccetto a righine bianche e azzurre. Il ciuccio che penzola lungo il corpicino e la testa reclinata sul petto.

Ha smesso di piangere da un’ora. Ha smesso di respirare. Ha smesso di farli ammattire. Ha smesso senza disturbare, sotto il sole di una estate da non dimenticare.