Eterni sconosciuti

La prima volta che ci siamo conosciuti doveva ancora scoccare il Duemila: la paura che con il nuovo millennio si polverizzassero tutti i sistemi elettronici si sarebbe poi sbriciolata simbolicamente nel crollo delle Torri Gemelle. Il sistema virtuale aveva retto, la concordia tra i popoli era stata seppellita dalle ceneri bianche e nere, con gli occhi a mandorla o con gli occhi a confetto, di migliaia di cadaveri morti per qualcosa più grande di loro: la stupidità.
Nel mio piccolo affrontavo i drammi quotidiani di un liceale senza barba, ma con le basette folte per avere qualche pelo da tirare durante la presentazione di un libro, che per motivi di convenienza economica né io né lei avremmo mai letto. Lei aveva preso appunti su un taccuino forse perché mandata dal giornale scolastico, e io l’avrei sedotta incarnando – nel modo paradossale che da sempre contraddistingue il mio personaggio – il ruolo dello sconosciuto, definito dal gergo letterario illustre o perfetto a seconda del contesto.
‐ Ciao – le avevo detto tenendo le mani in tasca e guardando ora lei e ora l’illustre sconosciuto che firmava copie del suo libro costoso – come va?
‐ Bene – aveva risposto lei mostrandosi disorientata, cercando di ripescare la mia immagine nella memoria piena di teste conservate in teche di vetro, connotate da un nome scritto in basso, riuscendomi a trovare in fondo a una galleria di facce maschili, nella Sala dei Perfetti Sconosciuti.
‐ Platone sbaglia se non ti ricordi di me.
‐ Scusa?
‐ Per lui, conoscere è ricordare.
‐ La teoria della reminiscenza.
Tra noi la sintonia sarebbe durata fino a Capodanno, quando a feste in compagnia abbiamo preferito una notte di contorcimenti sudati sotto le coperte in fantasia scozzese, a quadretti rossi e blu, intervallando i giochi con il vino e le tartine ricoperte dal caviale, bloccandoci sul più bello nel rispetto delle regole di un andirivieni che nel corso delle ore, centrifugandoci in un caos primordiale, si tramutava da pasto amoroso ad amore pastoso, nel senso che il caviale era finito per contornare i suoi capezzoli e io spesso le mangiavo questo anziché quelli, e lei si era ubriacata succhiando lo spumante frizzante, agitato, schiumoso, al punto da non capire più la differenza tra la schiuma che colava dalla bottiglia e quella proveniente dal mio amore, così al risveglio per pranzo, il primo nel Duemila, ci siamo scoperti con una quantità di lividi e ustioni come nemmeno il migliore dei santi, perciò abbiamo deciso che per la nostra incolumità c’era una sola cosa da fare: non vederci mai più.
La seconda volta che ci siamo conosciuti – dopo tre anni passati senza vederci, senza sentirci, senza toccarci – eravamo a una festa in maschera. Durante la partita a "guardie e ladri" mi ero trovato da solo con lei, nascosto dietro un frigo rotto, a parlare della morte. Il fatto curioso della situazione è che in quel momento io sapevo chi era lei, cioè Colombina, e lei sapeva che io ero Arlecchino, ma nessuno dei due aveva capito che sotto le maschere si nascondevano due facce conosciute altrove, al di fuori dalla Commedia dell’Arte.
‐ Quello che mi fa impazzire di questo gioco – diceva Colombina con una voce un po’ nasale per via della maschera – è la speranza di non essere beccati.
‐ A me dà l’idea di morire – rispondeva Arlecchino perché, anche se non aveva visto la faccia dietro la maschera, aveva studiato bene il corpo di Colombina rimanendo felicemente sorpreso dal suo arrivo nel nascondiglio del frigo rotto: le aveva sussurrato quelle parole per fare colpo.
‐ Come sei macabro.
‐ Stare qui è come essere un condannato a morte che spera nella grazia del Re.
‐ L’hai letto anche tu?
‐ Certo – avevo risposto con fermezza nonostante non avessi la minima idea di cosa stesse parlando. A parlare per me era il video del suo arrivo nel nascondiglio, che continuava a essere proiettato nella mia mente monotona: Colombina sta camminando all’indietro e si infila nel nascondiglio del frigo rotto, si accuccia, arretra, stoppandosi in tempo per evitare il contatto tra le sue curve posteriori e il naso sporgente di Arlecchino.
‐ A me piace un sacco, nel senso che mi commuove, la parte in cui la sua bambina lo va a trovare in carcere ma non lo riconosce. Mi dà i brividi.
‐ A me piace la parte con il prete.
‐ Quel cappellano è odioso.
La partita a "guardie e ladri" è finita male anche per colpa nostra: chiacchieravamo nel nascondiglio scoprendoci attratti a vicenda, e a un certo punto era stato impossibile resistere alla tentazione di smascherarla:
‐ Sei tu?
‐ E tu chi sei?
A queste due domande non era seguita nessuna risposta: lei mi aveva strappato la maschera dalla faccia e poi, in un raptus, ci siamo affogati in un bagno di lingue, dietro il frigo rotto perché da un lato il nostro rapporto si era spezzato da tre anni, dall’altro il sentimento era rimasto congelato in attesa di essere tirato fuori a cubi e versato nei bicchieri.
Lei era molto cambiata: in pratica era una persona nuova da conoscere daccapo: i capelli accorciandosi le si erano scuriti, e le sue forme avevano acquistato consistenza, si erano arrotondate, rimpolpate, le sue mani invece avevano subito il processo opposto diventando sottili e aristocratiche.
Anche il suo pensiero era cambiato: da anarchica individualista si era spostata al riformismo, e da atea si era evoluta a possibilista, i cani l’avevano stufata e preferiva circondarsi di gatti, per il modo sapiente in cui sanno strusciarsi addosso alle sue parti intime che non vedevo l’ora di ripassare.
Ai suoi occhi nemmeno io ero uguale al moccioso con le basette folte che aveva conosciuto nel millennio scorso: avevamo deciso che il passato era sepolto e il futuro sarebbe stato insieme. Intanto eravamo stati beccati a baciarci nel nascondiglio da due guardie: la nostra storia ricominciava dalla sconfitta.
Il ghiaccio dell’amore si sarebbe poi conservato integro nei nostri bicchieri fino alle vacanze estive, quando il mio spirito avventuriero si schianterà addosso a un albero ritorto nella danza della pioggia. Alla guida di un motorino preso a noleggio sfrecciavo a sobbalzi lungo un tragitto nel mezzo del deserto, mi compiacevo di avere le sue mani sofisticate intorno al torace, sentivo la sua paura scorrere sul mio corpo, e con il polso imprimevo al manubrio il comando di accelerare costringendo le sue dita a stringermi, sempre più forte, inclinavo la testa per spiare la faccia del mio amore dallo specchietto, mi deconcentravo, ridevo con gli occhi al sole, la polvere si alzava, lei era spaventata e io perdevo il controllo e lo recuperavo tranne in quella curva che mi avrebbe sconfitto.
Al ritorno dalle vacanze ci siamo lasciati, di comune accordo, una volta ancora per motivi di incolumità.
La terza volta che ci siamo conosciuti è stata su una panchina di San Pietroburgo, dove per la Rivoluzione di Ottobre avremmo dovuto aspettare ancora un secolo, o quasi. Nel frattempo vivevo da solo con il sogno di incontrare una donna che mi cambiasse l’esistenza, e nelle notti bianche passeggiavo per la città cantando a voce bassa, per non essere accusato di pazzia.
In quella Russia ottocentesca abitavano grandi scrittori, maestri nel rivelarmi che gli uomini, nel corso del tempo, si moltiplicano nel numero ma non nella specie. Erano passati tre anni dalla curva maledetta, scorsi senza mai vederla finché nelle notti bianche trascorse a San Pietroburgo l’ho conosciuta per caso.
All’epoca non mi interessavano i manuali universitari: mi ero buttato sui romanzi e identificavo in lei una precisa tipologia di donna, e pregavo che nelle storie entrasse in gioco un mio alter ego, in modo che il nostro amore proseguisse almeno nel mondo della fantasia se nella realtà non poteva farlo. L’ho incontrata per caso in una delle notti bianche, l’ho baciata in una locanda nei pressi di un castello in cui volevo entrare pur sapendo che non me lo avrebbero permesso, la incrociavo ovunque, ogni volta diversa e da conoscere ex novo.
‐ Tieni.
L’ultima volta che l’ho conosciuta è stata attraverso il suo diario. Sua mamma me l’ha regalato al funerale, perché conoscessi davvero cosa la figlia in vita aveva provato per me. È grazie al diario del mio amore che ho iniziato a scrivere storie, in ognuna delle quali ci siamo io e lei, eterni sconosciuti.