Fedeli alla roba - La Valle della Luna

Erano un po’ di anni che ne sentivo parlare. Quelli che c’erano stati, nella Valle della luna, la descrivevano come un posto selvaggio, montagnoso, pieno di rocce e di grotte dove potersi rintanare di notte o durante le ore più calde del giorno, frequentato da giovani di tutte le nazionalità, che amavano vivere in libertà e usavano solo droghe leggere. O al massimo il vino e qualche trip. La Valle rimaneva incontaminata perché si poteva raggiungere a piedi, percorrendo un paio di sentieri che s’inerpicavano sulle alture vicino a Capo Testa, in mezzo a sterpi e cespugli. Oppure via mare. E su quale tipo di miracolo potesse aver risparmiato quel piccolo paradiso naturale dalla edificazione selvaggia, che già allora proliferava sulla maggior parte delle coste sarde, fioccavano voci che nel corso del tempo si erano trasformate in leggende. Una di queste narrava di una nobildonna amante di quella terra e della sua natura selvaggia, che possedendo interamente il territorio della valle – in realtà le valli sono tre, attigue – aveva posto il veto di costruzione, riuscendo ad evitare qualsiasi tipo di speculazione edilizia.

Io e Angelica arrivammo a Santa Teresa di Gallura in autostop da Olbia, dopo la traversata notturna da Civitavecchia, con un economico passaggio ponte sui traghetti delle FS. Sotto il sole cocente di fine luglio, un paio di sconvolti romani ci risparmiò gli ultimi faticosi chilometri, dandoci un passaggio fino a Capo Testa, dove la strada corre su uno stretto istmo di terra, col mare ai due lati, e finisce su un promontorio selvaggio, alla punta estrema Nord dell’isola. “Ecco, il varco è là” ci dissero i due ragazzi, indicando un piccolo punto tra i cespugli dove iniziava la strada sterrata che portava a valle e noi c’incamminammo di buona lena, pervasi dalla curiosità per quel posto che, come novelli San Tommaso, volevamo vedere coi nostri occhi e calpestare coi piedi. Incontrammo ancora un paio di case, poi la strada sterrata di colpo sparì, trasformandosi in un viottolo angusto, quasi soffocato da cespugli e sterpi e molto più erto dello sterrato. Incrociammo degli sconvolti che scendevano e rimanemmo sbalorditi dal loro aspetto. Se le nostre sembianze erano piuttosto particolari, le loro avevano dell’incredibile. Le facce erano vere e proprie maschere in tutto simili a quelle degl’indiani d’America ma con colori più vivaci. L’abbigliamento era ridotto al minimo, un foulard o un pezzo di stoffa a coprire le parti intime. Ebbi il sospetto che li avessero indossati a bella posta, solo per recarsi in paese, altrimenti ne avrebbero fatto a meno. Il trucco scendeva dal viso a buona parte del corpo e sulle gambe. Trovandoci faccia a faccia, ci aggredirono quasi, tanto erano eccitati e fusi. “Ciaoo, che avete sigarette, qualche spicciolo? Ci servono, dobbiamo comprare il vino per la serata in valle”. Gli demmo quello che avevamo, domandandogli indicazioni sulla strada. “Ci siete quasi” ci dissero. Io e Angie, stupefatti e eccitati da quell’incontro, ricominciammo a salire. Dopo qualche minuto sentimmo un vociare sommesso, delle risatine provenire dalla cima dell’altura, sovrastata da un colossale masso a forma di parallelepipedo, letteralmente troncato in due, come se un gigante, un enorme Polifemo l’avesse spezzato di netto con un colpo di spada. Davanti al masso si apriva un piccolo slargo, uno spiazzo erboso. Sulla sinistra, dove il macigno si appoggiava alla montagna, una vasca artificiale di cemento grezzo raccoglieva un minuscolo filo d’acqua che scaturiva da un tubicino in ferro infilato nella roccia. Intorno a quella specie di vasca da bagno erano seduti tranquillamente quattro o cinque tra ragazzi e ragazze, in maggioranza nudi, intenti a parlare e ridere. Una di loro, con molta calma, con quell’esilissimo filo d’acqua si lavava mentre un altro si faceva la barba.

Col passare dei giorni avrei imparato che “andarsi a lavare alla fontana” era un rito. Il rito del riposo, del rilassamento e dello stacco dai ritmi da sballo della valle, che a volte diventavano frenetici e insostenibili. Era il momento del vero dialogo, del rapporto di conoscenza con gli altri abitanti. I cinque ci salutarono calorosamente e anche loro a chiedere “avete sigarette? Avete portato qualcosa da mangiare?”. “Quanto manca per la valle?” domandammo. “Siete praticamente arrivati” ci dissero. Sarebbe stato sufficiente superare il masso di Polifemo. Il viottolo vi passava quasi sotto, sulla destra, incuneato tra la parete formata dal macigno, inclinata a formare una specie di tetto, e quella della montagna. Appena oltre, il colpo d’occhio era davvero stupefacente. Una grande distesa, a tratti erbosa, digradava dolcemente per centinaia di metri verso una minuscola spiaggia, circondata da scogli enormi, dalle forme più svariate e particolari, schiaffeggiati da un mare agitato e scontroso. Il cielo era di un blu totale e nel silenzio più assoluto ci arrivò flebile lo sciabordio delle onde e qualche stridulo, isolato verso di cornacchia. Io e Angelica ci guardammo, gli occhi lucidi per lo stupore.

Cominciammo a scendere lentamente, curiosi per le forme delle rocce, per le grotte dalle quali qualcuno ci chiamava, ci salutava rinnovandoci in continuazione la solita richiesta: “non è che avete una sigaretta? Qualcosa da mangiare?”, offrendoci in cambio un tiro di canna o una golata di vino. Continuando quel tour delle tane, salutammo ancora qualcuno che avevamo incontrato in giro per il continente, poi cercammo una grotta anche noi, per posare i nostri stracci e metterci in libertà: ci sentimmo finalmente a casa.

Di sera la valle, che di giorno sembrava popolata da pochissime persone, si animava. La grande distesa digradante verso il mare cominciava a riempirsi di gente. Il viavai, che nel pomeriggio ravvivava le grotte disseminate sulle alture e nelle valli laterali, si concentrava al fondo della grande discesa, dove lo spiazzo si faceva più ampio. In quel punto quasi adiacente la spiaggia era stato eretto un totem. Era un vero totem, scolpito, addobbato di foulard, corde colorate e piume d’uccello, simbolo di un popolo randagio che si sentiva di assomigliare ai selvaggi indiani d’America e ai più raffinati, meditativi indiani di Goa o Calcutta. Come loro si riuniva a fumare il calumet della pace e allo stesso tempo, senza rinnegare le proprie radici occidentali, seguiva alla lettera i dogmi, le strade indicate dai guru americani della beat generation, e giù trip e mescalina e il tanto più economico, casereccio vino italico. La sera, intorno al fuoco, cominciava la festa. Scoppiava questo prepotente desiderio di liberare violentemente l’interiorità. Di rivoltare all’esterno la propria essenza. L’LSD, il vino, il fumo erano il tramite, il mezzo per abbattere le paure, la timidezza, la difficoltà di comunicare. In tanti anni passati a fumare hascisc e marijuana non ricordo di essermi mai fatto una canna da solo. Non avrebbe avuto senso. L’ero, in modo anche più potente del fumo, ti aiuta a superare le paure ma non per condividere la tua essenza, il tuo mondo con gli altri, bensì per prevaricarli, per essere il più forte, il migliore. Il fumo, volente o nolente, fa cadere tutti i freni inibitori. Ti fa fare un sacco di cazzate puerili. Ti fa ridere e giocare. L’ero ti dà il controllo assoluto sulle tue emozioni. Ti fa diventare un pezzo di ghiaccio. È la droga dell’individualismo, dell’egocentrismo. L’ero e io. Io, io, io. Per me erano due mondi paralleli, che s’incrociavano, facevano ugualmente parte di me. Si alternavano. Considerai la Valle il luogo simbolo di questo dualismo. In valle l’eroina era rigorosamente bandita. Chiunque avesse tentato di portarne sarebbe stato scacciato in malo modo. Il popolo dei randagi dedito alle droghe leggere detestava il popolo dei tossici dedito all’eroina. Io facevo parte di entrambi.

La sera si stava tutti attorno al fuoco a fumare, bere, fare musica e parlare, in un’atmosfera ideale per fare nuovi incontri e conoscenze. Angelica l’avevo quasi persa di vista. Facevamo ormai vita separata. Questo rientrava nella normalità e faceva parte di quel modo di vivere per cui nessuno si sentiva legato a chicchessia e non si ponevano limiti alla libertà dei singoli. In realtà, per come la vedevo io, la ragazza tedesca aveva travalicato i limiti del buon gusto, trasformandosi nell’ombra di se stessa. Era quasi sempre ubriaca fino al punto di non reggersi in piedi e così sporca che i suoi capelli lisci erano diventati un cespuglio batuffoloso. Aveva macchie di sudiciume in faccia e su ogni parte visibile del corpo. Incontrandola dopo alcuni giorni, quasi non la riconobbi, ma non le dissi niente. In nome di quella libertà assoluta.