Fine

La rabbia verso il nemico è svanita. La battaglia è stata dura, aspra come non avrei immaginato.
C’era un freddo intenso stamattina, tra i cespugli secchi e i sassi. Le dita facevano male a stringere il fucile e ci si rannicchiava dentro ai buchi a mordere il fango congelato come dentro il ventre di una madre morta. Ho urlato ogni volta che sparavo e volevo che col fiato se ne uscissero i pensieri.
Ora che il combattimento è finito ho qui davanti a me due prigionieri e un ordine da eseguire.
Non sono più nemici, per me, ma due uomini sconfitti e stanchi, impauriti e sporchi come me. Stanno in ginocchio, le mani legate dietro alla schiena e mi guardano.
Uno, avrà vent’anni, ha un graffio sulla guancia e tace.
I suoi occhi, ha un leggero strabismo in quello sinistro, si muovono con lentezza dal mio viso alle mani che impugano il fucile mitragliatore.
L’altro, più vecchio, guarda gli alberi oltre le spalle e parla in fretta.
Ogni tanto si ferma per prendere fiato, poi continua come se corresse.
Si sporge in avanti, quanto gli consente la scomoda posizione e punta col mento.
Si chiama Armando e abita lontano da qui, nella direzione di quegli alberi. È come se la vedesse quella casa, come se fosse proprio lì, appena dietro ai rami.
Mi giro anch’io a guardare.
È lì che vive, da quando è nato, pure suo padre, che ora è anziano, vi ha trascorso tutta la vita.
C’è anche la bottega dove lavora, di fronte a casa. Lui è un liutaio, anche suo padre lo era, ma ora gli tremano le mani e non riescie più a lavorare.
Piange, ma continua a parlare.
Sua moglie, perché è sposato, sua moglie si chiama Sara insegna alla scuola elementare. Hanno un figlio di undici anni. Ha solo undici anni, ma è già bravissimo a suonare il violoncello.
Io, intanto, armo il fucile.
Lui alza la voce. Mi dice di aspettare. Mi dice che il figlio si chiama Giulio e che l’anno prossimo lo manderà al conservatorio, che è un vero talento, che potrebbe.
Sparo una raffica.
E pongo a questa storia la parola fine