Fiore di pietra

Camminava. Ai bordi del sentiero le due file di cipressi incolonnati sbarravano il passo ai raggi. Sui sassi le ombre della sera proteggevano i viandanti dalla calura del mezzogiorno afoso. La vecchia calpestava la polvere e la pietra. Sembrava che quel giorno fosse nato casualmente. Incidentalmente si era alzata molto presto. Aveva visto le ultime stelle sfidare l’orizzonte mentre si colmava gli occhi dei colori dell’alba. Voleva allontanarsi dalle sue pareti per annusare l’alitare del vento. “Ci fosse stato almeno un soffio” . “Poter fuggire alle torri imponenti dell’ipocrisia” “Abbandonare quell’anima, inabissata, nell’inferno quotidiano”.

I cipressi sembravano tante guardie allineate e si assottigliavano fino a sparire quando la vista abbandonava gli occhi. Quella marcia solitaria s’interruppe solo quando lasciò l’ultimo cipresso alle sue spalle. Si trattenne ad ammirare la carezza di un raggio sulla roccia che andava a morire dentro una crepa triangolare disegnata sul granito. Le alte pareti rocciose s’incurvarono piegandosi al passaggio dell’anziana signora. Il liscio granito s’innalzava penetrando nell’azzurro, sino a toccare il cielo e carpiva la luce imprigionandola, nel grigiore del macigno. Il rumore dell’acqua s’insinuò dolcemente nella mente, mentre il concreto, del piede bagnato, la liberò dal pathos in cui era scivolata. Il ritmo del cuore incalzava il battito e nel delirio della sua impotenza l’apparizione dell’edera, arrampicata alla pietra, le ricordò che aveva sempre vissuto come un albero che non si sfoglia mai. Non aveva pensato alla rosa appassita né alla primula sfiorita. Non aveva pensato che ogni fiore cede la sua intensità per ore, per poi morire nel marcio dell’acqua stagnante del vetro.  

Aveva visto l’età della felce preistorica dalle corna di cervo, immutabile nella sua immortalità. Aveva vissuto ignorando l’esistenza dell’avanzar del tempo. Ai suoi piedi scorreva l’acqua, inesauribile. Un ruscello scaturito da un’invisibile sorgente che correva, serpeggiando tra i sassi, inghiottendo la polvere, le foglie e quant’altro. Non sapeva. L’urlo si perse scheggiando l’aria muta. Il fiume le restituì l’immagine del volto appassito. La bocca, tremante d’ira si contorse in una smorfia. Assenza di linfa. Tempo passato e volto meno bello. Labbra grinzose, passo stanco e mani increspate. L’acqua riportava l’immagine in rovina trascinando nella follia delle piccole onde ciò che di lei restava. Poi, ogni cosa un miraggio. Le ninfee catturarono l’occhio, le viole accentuarono il desiderio di trattenersi ancora a riposare sul letto di quel fiume eterno. ‐ Lei così vecchia – ‐ Lui così fluido e sinuoso benché assopito. La vecchia si sdraiò sopra la sponda; gli occhi aperti sul soffitto del cielo e i piedi immersi nell’umidità del limo. Cullata dalla dolcezza dell’aria e dal silenzio del giorno ormai inoltrato s’avviò in un sogno mai pensato. Rifletteva i suoi pensieri dentro lo spazio azzurro e infinito, meditando sulla sorte, sulla bellezza ormai svanita e sull’assurdità della vita che l’aveva portata a riposare sopra un letto di pietra con il corpo indurito dall’artrite. Non sapeva da dove arrivava il valzer di Chopin Il silenzio cantava note e fondeva il brusio solitario dell’acqua. Ferma nell’illusione dell’istante, per un attimo rifiorì la sua bellezza senza tempo.