I mille oceani

Appollaiati su una panchina, lui con la birra in una mano e la sigaretta rinsecchita nell’altra, lei timidamente seduta a gambe strette che lo guarda. E’ bello, pensa, come sembrano tutte le cose cattive, quelle che fanno male. Il suo sguardo allora scappa lontano, alla ricerca di una tana sicura. Che sembra non esserci, non esistere, è solo un rifugio fatto d’una materia molto più labile della carta.
Fatto d’aria.
E proprio quando giunge alla disarmante certezza della totale sottomissione a cui quegli occhi verdi la costringono, lui quegli occhi glieli punta addosso. E’ una frazione di secondo, ma lei li sente pungere. Il silenzio confortante nel quale si è rinchiusa, la sua bolla di calma, viene spazzato via come il terriccio ai piedi della panca, smosso dal vento.

‐ Lo amavi?

Sì, sì che lo amava. Chissà perché vorrebbe urlarglielo in faccia. Quel poco di pudore che le resta, tuttavia, la trattiene dal farlo. Nei suoi pochi anni ha visto quel poco che basta ad affermare senza dubbio che svendere il dolore all’umanità è una cosa del tutto inutile; l’unico frutto che offre è una silente umiliazione atroce da tollerare. Del resto, a che scopo condire con le lacrime una verità già triste di per sé? Lei ha amato un uomo ‐ un uomo? ‐ capace di plagiarla al punto tale da spingerla verso l’annientamento, che le diceva di bruciarsi la pelle per materializzare il dolore. Che quando lei le aveva mostrato i compiti a casa in un bagno della scuola aveva riso, aveva goduto, perché poteva finalmente essere sicuro di averla fra le mani e di poterne fare uso.
Poi, non contento abbastanza, l’aveva tradita con ben tre donne. E se n’era andato.
Il brutto? E’ che lei l’aveva amato, una sensazione immensa ed avvolgente come un odore restio a dissolversi.
Può esserci qualcosa di peggiore? Sì: raccontarlo. Ammettere di fronte al tribunale mondiale la sua più grave colpa, l’errore che non s’è mai perdonata. Tribunale mondiale: che esagerazione. Alla fine, non è altro che un ragazzo quello che ha di fronte, uno che ha sbagliato tante volte, così tante che a volte lo immagina insonne, nel suo letto, mentre si rigira fra le immagini convulse di un passato ostinato a ripresentarsi alla sua porta senza chiedere permesso. Lo vede, con i capelli castani raggruppati assieme dal sudore, che pigia la ventesima sigaretta ridotta al filtro nel posacenere strapieno, fissando il soffitto con la speranza cieca di trovare un particolare, anche una piccola crepa, in grado di donare un senso a quella tonnellata di merda che tiene in groppa da 25 anni.
Pensa a lui mentre è con lui, cerca di ricordarselo quando ce l’ha davanti, e sente che non v’è nulla di più straordinario.
Sente che c’è qualcosa, un’indefinibile scossa di vita, per cui vale la pena sopportare la pena che l’aspetta, il giudizio silenzioso della corte. Può abbassare la guardia, anche se per poco, e dire Sì, l’ho amato molto … Purtroppo o per fortuna, ma m’è servito.
La giuria sbuffa il fumo in fuori, la giuria ha raggiunto il verdetto. Per una volta, lei di quel verdetto non ha alcuna paura.

‐ E quell’altro … Quello che ti picchiava. Quello l’amavi?
A quanto pare i giurati non sono soddisfatti: puntano su un altro capo d’accusa, l’ennesimo. Anche quello è un ricordo gravido di nubi e ombre, tenuto nascosto per molto tempo, sebbene all’apparenza lei sia sempre riuscita ad estrarne il veleno, parlandone con tutti, con chiunque. Ma mai riuscendo a spiegarlo veramente.
Non ha mai saputo far comprendere agli altri l’entità dell’affetto che è stata capace di dare a quell’individuo, l’unico a cui sa che non restituirebbe il saluto nemmeno in punto di morte, semplicemente perché lui ‐ l’altro lui ‐ le ha ripagato tutto l’amore in comode rate da cinque dita. Attorno alla sua gola o dritte in faccia. Forse, per quanto l’ha ignorato dopo l’epilogo, è arrivata ad uccidere ogni tipo di sentimento buono nei suoi confronti. Forse quel sentimento non è mai nato, perché innamorarsi è un po’ come stringere un patto di sangue con un’altra anima per tutta la durata della propria esistenza; e se per l’altro il patto continua ad essere rispettato, per lui ogni goccia di sangue versata è tornata indietro. L’unica morale è che è servita anche questa, una specie di prova, un test.

‐ Alla fine ho capito quanto può essere difficile per una mamma volere bene al proprio figlio nonostante i difetti che ha.

Lui sorride di lato, come se avesse assaggiato qualcosa di andato a male. Fissa il selciato impolverato di terra rossastra, lo centra con il mozzicone accartocciato, si estranea nell’ultimo giro di fuoco della brace. E quando ritorna a guardare lei è come se avesse fatto un incubo e si fosse svegliato appena, sconvolto e distante dal mondo.

‐ Io non ti picchierei mai. L’ho fatto tante volte, con tante persone ma … Tu. Non ti picchierei mai.

La lascia trasalire per tornare a perdersi fra i granelli di polvere; lei, da parte sua, non dice niente. Non v’è una domanda che necessiti risposta, non esiste domanda né fra le righe né altrove. Ci mette un poco ad afferrare, poi afferra, prende, ed a quel punto non avverte più il bisogno di un rifugio dalla realtà, dagli attacchi continui al suo palazzo di vetro; perché è come se stesse già al suo interno, al riparo.
Quello di lui è stato solo un modo di ricambiare. Segreto al segreto, confessore contro confessore. Fra peccatori si stabilisce un contatto, ed anche se si edifica su un cuore sporco è lecito e, soprattutto, confortante sapere che c’è. E’ invisibile, ma c’è.

‐ Grazie.

È la cosa più naturale che le labbra di lei siano in grado di pronunciare. E lui sobbalza, come lei poco fa, perché proprio questo non l’ha previsto. Perché non ha previsto lei, il sorriso bianco che le si sta spalancando sul viso, le guance rotonde, le iridi nere e lucide come i vecchi vinili di suo padre. Pace all’anima sua. Cosa c’entra ora suo padre, boh, chi lo sa. Il vento non glielo suggerisce, e non appare segno fra i chicchi rossi del terreno che gli indichi il motivo, la molla che è scattata nella sua testa, che va avanti e indietro, e non si ferma, ogni volta che è con lei. Il ghiaccio si sta sciogliendo o è soltanto un’illusione? Eppure si sente così al caldo adesso, e sono bastati una parola ed un paio di grandi occhi scuri dalle ciglia lunghe … Naaa. Sono stronzate, tutte stronzate, c’è troppa carne a cuocere e poco spazio per aggiungerne altra.

‐ Di che mi ringrazi … S’è fatto tardi comunque. Ti do uno strappo o vai a piedi? 

Lei non fiata, e lascia che il sorriso rimpicciolisca fino a sparire. Ha tastato un cambiamento minimo ma reale; un filo elettrico tagliato in due. E’ molto probabile che sia lei la causa, però a che vale pensarci?, lui sta andando via, la pianta in asso, è il crepuscolo e l’alcova resta vuota. Stupida e assorta, si blocca a seguire i suoi movimenti, lui che scavalca la panchina, lui che si fa schioccare il collo mentre sale a bordo, arrogante ed insieme rispettoso.
La moto si schiarisce la voce e non c’è più tempo: per riflessioni, confessioni, appelli disperati. Lui è ripassato dietro alla sua bacheca di vetro antiproiettile; fiero, intoccabile, guarda l’orizzonte e lei con i medesimi occhi assenti. Ci guarda attraverso.
Sotto il suo sguardo lei non può che sentirsi debole, esposta. Un’imputata incapace di difendersi.

‐ Dai, salta. Non voglio tenerti sulla coscienza.
E lei non sa se subire passivamente l’attenuazione della pena o provare a chiedere un risarcimento.
Quando gli si aggancia alla schiena e vi si schiaccia contro, smette di sapere anche il resto. Non sa più niente, solo che l’adrenalina le avvinghia i polmoni e gli odori autunnali le esplodono uno dietro l’altro nelle narici. Ha fiducia, ha coraggio, è convinta di poter rischiare.
La seduta è momentaneamente sospesa.