I Triangoli Rosa

§  175 StGB. Ein Mann, der mit einem anderen Mann Unzucht treibt oder sich von ihm zur Unzucht mißbrauchen läßt, wird mit Gefängnis bestraft.
Bei einem Beteiligten, der zur Zeit der Tat noch nicht einundzwanzig Jahre alt war, kann das Gericht in besonders leichten Fällen von Strafe absehen. 

Traduzione: Codice civile penale tedesco, versione del 28 Giugno 1935. Paragrafo 175:  “Un uomo che commette con un altro uomo atti licenziosi e lascivi o si presta a subire tali atti è punito con la reclusione. Se una delle due persone coinvolte ha meno di  ventun'anni al momento del reato, il tribunale può, in casi eccezionali di minore gravità, astenersi dall'infliggere la pena.”

                                                                    I TRIANGOLI ROSA

Lo scatto del registratore mi fece sussultare, mentre lei lo riponeva sul tavolo. “Quando se la sente incominci pure” sussurrò, pronta a prendere appunti. Fissai l’orologio sulla parete dinanzi a me, quasi avesse il potere di arrestarsi e ritornare indietro per riportarmi ai miei incubi di tanti anni fa.
“Inverno 1940” iniziai “il mio arrivo al campo di concentramento di Sachsenhausen…”

Frugando nei miei ricordi, non posso negarlo, ci sei tu.
I tuoi occhi di cristallo, che ho notato sin da subito il giorno che fosti assegnato al nostro blocco, m’invadono i pensieri anche adesso. Eri giovane e sperduto, non so nemmeno quanto potessi essere conscio  del perché fossi finito tra noi. Il tuo segno sul petto, in quella divisa a righe già logora, diceva tutto di te e aveva ben poca importanza quanto fosse vero o meno, il tuo destino era già stato segnato, legato a doppio filo con le nostre disgrazie.
I tuoi capelli erano stati rasati, ma eri bello ugualmente, tremo ancora adesso se ci ripenso. Con te nella mia mente inizio a parlare quest’oggi.

“Cosa facevate durante la giornata? A che lavori, o attività, eravate assegnati?”
Lei si sporse dalla poltrona, quasi avesse voluto venirmi incontro. Il suo registratore continuava a girare.
“Non avevamo molte scelte” ripresi “eravamo destinati ai lavori forzati , oppure a sottoporci alle cure e agli esperimenti che i medici del Reich propinavano ad alcuni di noi per farci guarire dall’omosessualità. Non seppi mai con quali criteri venivamo scelti, ma immagino che nessuno guarì con i loro tentativi”.
Sorrisi.

Imparasti fin da subito qual era la nostra routine: il risveglio, se mai Dio avesse voluto regalarci il sonno; l’appello e la colazione, se ve ne fosse stato il tempo. Poi il lavoro, estenuante tra lo scherno e il disprezzo dei nostri carcerieri. Dopo la prima settimana ci misero assieme. A mani nude  spostavamo la neve da un ciglio all’altro della strada. Ricordo che più di una volta rischiai di inciampare per essermi soffermato troppo tra le tue iridi. Cadere sarebbe stato un grave errore, loro non aspettavano altro.
“Io mi chiamo Hans” sussurrasti, tanto da poter essere sentito da me solo.
“Jorge” replicai con un soffio.
“Tutto questo finirà quando ci avranno uccisi?” mi chiedesti al successivo trasporto. Mi morsi la lingua, la tua domanda cadde nel vuoto. I miei occhi si incastrarono nei tuoi.
Ciò valse più di ogni risposta.

“E la notte? Cosa facevate durante le notti?”
Sospirai. “Eravamo obbligati a stare in due o in tre per cuccetta, le mani bene in vista, per non toccarci. La luce era sempre accesa e ogni notte facevano le ronde per controllare. Non era permesso nemmeno parlarci, potevamo solo pregare in silenzio che il sonno scendesse su di noi”.

Erano trascorsi mesi, o forse anni quando assistemmo all’esecuzione dei nostri vicini.
Fummo messi in riga mentre quei due, di fronte a noi, vennero spogliati in mezzo alla neve. Era Gennaio, credo. Sapevamo che avremmo saltato la colazione quel giorno.
Fummo obbligati a guardare, ad ascoltare quelle urla atroci. Sperai con tutto il cuore che le guardie non notassero le mie o le tue lacrime.
Avremmo rischiato di essere puniti anche noi.
Erano stati scoperti a toccarsi la notte precedente, le avvisaglie di questo loro amore noi le avevamo notate da tempo e ne avevamo paura.
Sapevamo che sarebbe accaduto.
Li violentarono con le spranghe prima di sparare e dopo li lasciarono lì, sanguinanti e mezzo sventrati, sulla neve che divenne rossa tutt’intorno. Le guardie ridevano ammonendoci tutti.
“I prossimi potreste essere voi” dicevano. Quella notte notai che tremavi. Eravamo finiti nella stessa cuccetta da un mese, il ricambio tra nuovi ingressi e decessi di altri era costante. La tua figura si era fatta già ben più esile rispetto al tuo arrivo nel nostro inferno.
Era appena passata la ronda, i tuoi occhi grandi mi fissavano irrequieti, temevo che ancora nelle tue orecchie rimbombassero le urla di dolore dei nostri compagni.
Avrei voluto poterti abbracciare pur di confortarti da quell’orrore, ci sarebbe voluto poco, le nostre mani erano distanti di qualche centimetro soltanto.
Poi accadde. D’improvviso il tuo viso si arenò al mio, e per un lungo minuto ci baciammo. Non so se fosse per paura o per chissà quale altra forza che voleva esorcizzare l’orrore che era diventata la nostra vita.
Nessuno se ne accorse, dopo pochissimo i tuoi occhi si riposizionarono al loro posto.
Non me lo scorderò mai quel gesto. Ti fece smettere di tremare.

“Avevate rapporti, di qualunque genere, con gli altri reclusi del campo? Collaboravate? Vi incontravate?”
“Eravamo considerati da tutti il gradino più basso, anche dagli altri prigionieri. D’altronde noi, i triangoli rosa, eravamo quelli contro natura che, per il solo fatto di esistere, commettevamo un delitto agli occhi di chiunque. Non si doveva avere contatti con noi, per evitare qualsiasi contagio della nostra omosessualità, o qualsiasi ritorsione. Tutti, dagli ebrei agli zingari,  ai testimoni di Geova, non dovevano fare grandi sforzi per disprezzarci”. Mi fermai un secondo prima di proseguire “il triangolo rosa era il nostro marchio dalla doppia sventura”.

Altro tempo trascorse, mentre il nostro amore, a disprezzo della fame e del dolore quotidiano, cresceva. Ci furono diverse esecuzioni e altri nuovi sventurati ci raggiunsero. Io ti amavo, nonostante ormai di noi fosse rimasto solo il fantasma di quel che eravamo un tempo, nella vita passata che non c’era più.
Ci avevano trasferiti a lavorare alle fosse comuni, dovevamo trasportare i corpi sino ai forni.
La tua tosse peggiorava di giorno in giorno e io pregavo che nessuno si accorgesse del tuo malessere e lo riferisse a loro. Si diceva che chi si ammalava venisse portato via col treno, lo stesso che fischiava vicino al nostro blocco, e che, una volta guarito, lo riportassero al campo. Avevo addirittura sentito che qualcuno dei nostri ci aveva provato a simulare qualche malattia pur di essere portato via.
Io non vidi mai nessuno tornare indietro.
Mi ricordo bene quando avesti la tua crisi. Stavamo trasportando l’ennesimo corpo sconosciuto, in parte putrescente. Tu ti fermasti senza motivo, guardandomi e basta, io cercavo di strattonare il peso per farti riprendere prima che qualcuna delle guardie ci punisse per la pausa non concessa.
Il tuo viso era scavato e scarno.
“Ti amo Jorge” dicesti mentre mi fissavi senza smuoverti.
Rimasi impietrito.
Tutto il dopo avvenne molto in fretta.
Fosti scosso da una tosse molesta che sparse un po’ di sangue dinanzi a i tuoi piedi senza placarsi. Ti vidi cadere in ginocchio, cercai di sorreggerti, piangevo.
Arrivarono subito, strappandoti dalle mie braccia, con forza cercai di aggrapparmi alla tua casacca logora.
Mi rimase in mano un pezzo del tuo triangolo rosa.
Fui allontanato in malo modo mentre ti portavano via. Non lavorai mai più al reparto cadaveri da quel giorno.

“C’è mai più tornato a Sachsenhausen?”
Erano passate due ore dall’inizio dell’intervista e sapevo che ormai ci stavamo approssimando alla conclusione. Involontariamente una lacrima mi scese tra le gote, mentre la mano mi si posizionò all’altezza del mio vecchio cuore malandato.
“No” risposi “non ne ho mai avuto il coraggio”.

Ricordo bene che lo feci qualche anno fa, quando ancora le mie gambe funzionavano nonostante tutto. Rividi quei binari maledetti, là, dove i miei occhi o soltanto il mio animo attendevano il fischio di quel treno che ti avrebbe riportato indietro, ma non lo fece mai.
Osservai tutto quanto, durante la visita guidata, riconoscendo che nei miei ricordi non era presente la dimensione immane di cosa fosse stata quella tragedia. Sachsenhausen era vuoto, eppure io, nella nebbia dei miei ricordi, non avevo mai pensato alla sua grandezza.
Vidi anche la nostra baracca, ma non ebbi il coraggio di entrarvi per vedere cosa potesse esserci rimasto dentro, di me, di noi. La guida spiegò ogni cosa, ma non disse una parola sui triangoli rosa. “Ancora oggi” pensai “siamo destinati a morire nell’oblio”. Mentre il resto della comitiva, stranamente silenziosa, si recava allo stand dell’ingresso per un po’ di relax, mi avviai a compiere quello per cui ero venuto.
Conoscevo la strada, anche dopo quegli anni in cui con tutte le forze avevo cercato di cancellarla. Mi fermai vicino ai binari, poco distante c’era la fermata, dove ogni cosa, per entrambi, aveva avuto inizio. Tirai fuori il mio logoro pezzo di stoffa, ormai sbiadito, che avevo conservato come una reliquia per tantissimo tempo. Era il mio triangolo, quello che avevo cucito sul petto della mia divisa. Lo adagiai lì, vicino alle rotaie, ponendoci sopra un sasso.
Era così che doveva essere fatto.
Esso indica un pezzo del mio cuore, un pezzo della mia vita forse. Rappresenta quell’uomo col pigiama a righe, consunto e sporco, il cui spirito, il mio, attendeva giorno dopo giorno, anno dopo anno, che tu in qualche modo ritornassi scendendo dal vagone della morte.
Ricordo che piansi soltanto più tardi, ma provai anche sollievo, perché finalmente dentro di me parte di quell’incubo era stato esorcizzato.

L’intervistatrice si avviò, ringraziandomi tanto per la gentilezza. Il registratore scomparve nella sua borsetta. Dopo che fu andata via, la mia mano tornò vicino al cuore, estrassi dal taschino lo scampolo rosa sbiadito che apparteneva alla sua divisa. Me lo misi sul naso, come facevo di tanto in tanto, cercando di non piangere più. Se chiudevo gli occhi riuscivo ancora a sentire qualche brandello del suo odore, lo stesso che non ho mai ritrovato dopo, perché la vita con le sue tragedie mi aveva impedito di riassaporarlo dopo l’unico bacio che io e Hans ci eravamo scambiati.
Nel mio animo sentivo dentro l’unico rimpianto che mi restava e che mi assillò per tutto il tempo successivo.
“Ti amo Hans” sussurrai.
Glielo avrei voluto dire prima che lui morisse.
Glielo avrei voluto dire quel giorno che mi fu strappato dalle braccia.