Il colpevole designato

Nel nostro dormitorio dormiva anche una suora.
Il suo letto era separato dal resto da grandi teloni bianchi, come un confine sacro che non si poteva attraversare. Per noi bambini quel letto non era solo un letto: era un’autorità che continuava a vigilare anche nel sonno.
Una sera accadde qualcosa che ancora oggi ricordo con una chiarezza crudele.
Un bambino di quinta elementare, uno di quelli più grandi, più sicuri, ebbe un’idea che a lui sembrò uno scherzo. Mise un ranocchio nel letto della suora.
Quando la suora si coricò le luci erano già spente.
Pochi istanti dopo, un urlo squarciò il dormitorio. Un urlo così forte che mi sembrò impossibile non fosse stato sentito da tutta la montagna.
La vidi uscire da dietro i teloni senza il velo in testa.
Era la prima volta che la vedevo così. Scoperta. Furiosa. Umana, ma in un modo che faceva paura. Urlava senza fermarsi:
— Chi è stato?
— Chi è stato?
Poi, senza nemmeno cercare davvero, disse che se il colpevole non fosse venuto fuori, la punizione sarebbe toccata a me.
Disse che ero diventato la causa di tutti i mali.
In quel momento capii una cosa che nessun bambino dovrebbe capire così presto:
che non importa ciò che hai fatto, ma chi sei diventato agli occhi di chi comanda.
Naturalmente il vero autore dello scherzo non si fece avanti.
Io sapevo chi era stato. Lo sapevano anche altri. Ma nessuno parlò. Io non parlai. Non per eroismo. Per paura.
Sapevo che se avessi detto la verità, probabilmente non mi avrebbero creduto.
O peggio: lui, il vero colpevole, mi avrebbe fatto pagare quella parola con le mani. In collegio la giustizia non proteggeva i più deboli.
La punizione toccò a me.
Fui mandato a dormire in soffitta.
Ricordo il buio.
Ricordo lo squittire dei topi.
Ricordo il rumore dei passi che sembravano avvicinarsi e poi sparire.
Ricordo soprattutto quella notte che non finiva mai, fatta di paura, di freddo e di pensieri troppo grandi per un bambino.
La mattina dopo, il vero autore dello scherzo si avvicinò.
Mi disse che ero stato un duro, che avevo fatto bene a non fare la spia. Me lo disse come se fosse un complimento.
Io non risposi.
Dentro di me sapevo che non era forza quella. Era solo sopravvivenza.
In collegio imparai molte cose.
Non tutte erano quelle che volevano insegnarmi.