Il giovane Aprile

Era nuvoloso e freddo, quel giorno di gennaio, quando il giovane Aprile, un piccolo ometto di un anno più di me, bussò alla mia porta e chiese a mia madre dov’ero, appena mi vide comparire disse una sola cosa: ”E’ arrivato”. Era arrivato, il più desiderato ed ambito giocattolo di quei giorni d’inverno: il calcio a molla. Mia madre mi fece andare a casa del giovane Aprile, senza nemmeno chiedersi il perché di quella frenesia che notava in noi. Il calcio a molla era ancora nella scatola di cartone, sulla parte superiore aveva l’immagine di un calciatore che tira in porta, e si intuiva che il tiro sarebbe diventato un gol, visto che si vedeva il pallone, accompagnato da una striscia blu, superare le mani del portiere. Lo togliemmo dalla scatola con una delicatezza inusuale per dei bambini, lo poggiammo sul tavolo della cucina, trovammo il pallone nella bustina di carta, che era finita sotto un foglio con su stampata la spiegazione per montare le porte, le montammo subito, senza notare niente di ciò che era scritto sul foglio. Quel giorno ci fu la prima partita di calcio a molla in casa Aprile. Le due squadre avevano le maglie colorate, una di rosso e l’altra di blu, a noi due non piacevano, volevamo l’azzurro del Napoli e il nero‐azzurro dell’Inter. Fu così che cominciai a dipingere, con una grande attenzione e delicatezza, senza fare nessuna colatura sul verde del campo, e con una grande pazienza nel dipingere le strisce verticali della maglia dell’Inter, che per il giovane Aprile erano fondamentali, ed i numeri sulle spalle dei giocatori, e lì ci accorgemmo che non erano undici ma otto, ed inventammo la numerazione personalizzata, tanti anni prima che l’immettessero nel calcio, Sivori doveva avere il dieci, Corso doveva avere l’undici. Iniziò così una lunga ed impressionante serie di sfide, i cui risultati venivano annotati su un quadernetto piccolo, a fogli giallognoli, con la copertina di un verde smagliante, dove scrivemmo a caratteri cubitali: “INTERNAZIONALE‐NAPOLI”. Le sfide si conclusero a giugno, in occasione della fine della scuola, il giovane Aprile doveva andare a lavorare nel bar del padre, a consegnare i caffè, con un vassoio che teneva sempre in bilico sull’avambraccio sinistro, ed io andavo a fare il ragazzo di bottega nella falegnameria di mio padre. Ci vedevamo ogni volta che portava il caffè a mio padre ed ai suoi colleghi, e di soppiatto ci gridavamo “in silenzio”: “Forza Napoli” l’uno; “Forza Inter” l’altro. Era il Napoli di Sivori ed Altafini, di Juliano e Bianchi e di Dino Zoff, era l’Inter di Mazzola e Picchi, di Jair e Corso, e di Helenio Herrera. Erano le squadre di un calcio antico, fatto di bianco e nero e di fantasia. I calciatori erano come dei dell’Olimpo, si sapeva che c’erano, ma non si sapeva com’erano, una piccola immagine colorata ne dava il tratto: le figurine Panini. L’estate passò, ma le sfide col calcio a molla non ripresero, il giovane Aprile con tutta la famiglia traslocò, chissà dove andarono ad abitare, forse appena il quartiere più avanti, ma in quel tempo spostarsi soltanto di un paio di chilometri, significava sparire, il mondo era molto più grande di adesso.  Anche a scuola il giovane Aprile non c’era più, in quella piccola scuola del prete, dov’erano insieme più classi: la prima e la seconda elementare erano unificate in una sola classe, così la terza e la quarta; non chiedetemi come si poteva svolgere un programma scolastico in quel modo. Fu freddo e piovoso quell’inverno, il tempo influiva sulla tristezza di non avere più un amico, di non giocare più a calcio a molla, avevo imparato a fare dei tiri all’ungherese spaventosamente tesi e precisi, avevo scovato una tecnica sopraffina, piegavo il calciatore, che era innestato su una molla, fin quasi orizzontale rispetto al terreno e spostato di circa quarantacinque gradi rispetto alla porta, il tiro che ne usciva era letale. Guardavo spesso dai vetri di camera mia verso il balcone dove abitava il giovane Aprile, ma c’era quasi sempre un piccione soltanto, che girovagava sulla ringhiera e fra le piante e poi tornavo a leggere Salgari, il mio preferito: “La capitana del Yucatan”. Stavo finendo la seconda elementare, arrivava l’estate, rividi il giovane Aprile, sempre indaffarato per le consegne del caffè e sempre più grasso, inciampava spesso e sembrava sul punto di rompere tazze e bicchieri ogni volta che usciva per consegne, ma rideva sempre. Non l’ho mai visto piangere, anche quando mi raccontò che il padre con un calcio gli aveva sfondato il calcio a molla.
“Perché?”, chiesi, e mi rispose con un sorriso: “Perché mi ero messo con i calciatori a tirare le palline di vetro addosso a mia sorella... nessuno giocava a calcio con me”. Quell’immagine del calcio a molla sfondato da un piede me la sono portata appresso per tanti anni, infatti, non ho mai voluto quel gioco in regalo, per me il calcio a molla non è più esistito. Non ho più visto quel mio giovane amico, in quel tempo faceva caldo, molto caldo, pensavo a quanto è meglio il freddo, andare a scuola, non stare tutto il giorno in bottega fra la segatura ed i trucioli, e poi a scuola c’erano tutti i miei amici. Non sapevo che dopo poco tempo, saremmo andati via anche noi da Gianturco, andavamo ad abitare a Portici e non sarei più andato alla scuola del prete, non avrei più rivisto nessuno dei miei giovani amici.