Il letto nel deserto

Sembra un miraggio quella piccola tenda bianca nel deserto. Da lontano si nota appena, accampata ai piedi di una duna a due passi dall’oceano, poco distante dal villaggio in cui alloggio. Sembra un fazzoletto svolazzante, trattenuto a stento da quattro pali di legno conficcati nella sabbia, che resistono fieri agli schiaffi del vento. E’ piccola ma grande abbastanza da accogliere un lettino su cui distendersi, una sedia dove lasciare gli indumenti e un piccolo tavolo dove appoggiare asciugamani, creme e alambicchi con profumi e oli essenziali.
E’ lì dentro che lavora Ramilton, un giovane capoverdiano dalla pelle di seta e i riccioli color d’ebano. Non è un alchimista, come tutte quelle boccette di vetro potrebbero far pensare, ma un massaggiatore molto apprezzato sull’isola. E la piccola tenda bianca è il suo regno, un’oasi di riposo, ombra e abbandono, per chiunque desideri chiudere fuori per un po’ il caldo incessante del sole e la violenza del vento che, in certi giorni, è davvero prepotente a Sal.
Il via vai dalla tenda è continuo, con un ritmo variabile e soste che durano da poche decine di minuti fino a due o più ore. Per lo più sono donne quelle che la frequentano, donne di tutti tipi, turiste di tutte le età, anche se a volte persino qualche uomo fa visita a Ramilton, forse incuriosito dai racconti delle signore che decantano entusiaste i suoi sapienti massaggi.
Pur riconoscendone il fascino, Ramilton è decisamente troppo giovane per i miei gusti. Sembra un ragazzino sbocciato tutto d’un colpo, spremuto dall’esuberanza precoce della natura; troppo delicata mi sembra la sua pelle ambrata rispetto al nero africano, duro e animalesco di queste isole; persino troppo dolce mi appare il suo sguardo di cerbiatto, come fosse in cerca di carezze, proprio lui che ne è dispensatore; e il suo sorriso morbido è così disarmate che mette in moto dentro di me tutti i sentimenti più vicini alla tenerezza, piuttosto che all’eccitazione. Per questo, forse, non considero seriamente i suoi insistenti inviti ad assaggiare le sue doti di massaggiatore.
Ramilton mi ha messo subito gli occhi addosso. Li sento frugare sul mio corpo quando mi guarda, come se pregustasse i giochi delle sue mani esperte su di me. Ma vince la sensualità acerba di un ragazzo incapace a sciogliermi, così, lascio sempre scivolare via il suo sguardo, incurante di quel pur lusinghiero corteggiamento.
“Vieni un giorno a farti massaggiare da me, nella mia tenda, sono bravo” mi ha detto sorridente una mattina sulla spiaggia, mostrandomi le sue belle mani di velluto. Ramilton parla un inglese talmente improvvisato che sembra una lingua nuova, inventata apposta per un sogno. Ogni tanto lo mescola qua e là con qualche parola in portoghese e, quando vuole essere ancora più convincente, in spagnolo, come per mostrarmi il massimo dei suoi sforzi per venirmi incontro e farsi capire. Si rivolge a me quasi sottovoce e il suo tono è in sintonia perfetta con il suo modo d’essere garbato e rispettoso. Puntualmente, quando mi parla, gli vado incontro anch’io e, raggiungendolo a metà strada in quel crocevia d’idiomi, declino gentilmente l’invito, spiegandogli di non avere bisogno dei suoi massaggi, perché ci pensa il mare, con le sue onde prepotenti, ad occuparsi generosamente del mio corpo.
In effetti, così è. Ci sono momenti in cui è difficile, persino rischioso, tentare di tuffarsi nell’oceano, tanto sono alte le onde. Osservandole, ho capito che bisogna studiare il mare, calcolare il ritmo e la frequenza con cui si susseguono le onde violente fino a diventare sempre più deboli. Quello, il momento in cui la forza si esaurisce, è l’attimo in cui poter approfittare per avvicinarsi e tuffarsi, andare al largo e aspettare che il successivo moto d’acqua faccia il suo corso e ritorni quieto prima di tentare di uscire nuovamente sulla spiaggia. Bisogna essere intonati con il mare, altrimenti si rischia di esserne travolti.
Ci sono comunque le securitas, sempre vigili sulla spiaggia: ragazzi muniti di fischietto e binocolo pronti ad intervenire in caso di imprudenze, evidentemente avvezzi alle ingenuità dei turisti poco pratici di mar d’Africa. Sembrano appartenere ad un’altra razza loro rispetto a Ramilton: sono tutti alti, muscolosi e nerissimi, mentre Ramilton si distingue per la sua corporatura più minuta oltre che per la pelle sensibilmente più chiara. Probabilmente provengono da altre isole che, pur facendo parte tutte dello stesso arcipelago, hanno una storia diversa tra loro, storia che traspare anche nelle sfumature e nei tratti somatici alla gente.
Ramilton non si mette mai in costume da bagno. Anche quando esce dalla sua oasi e raggiunge la spiaggia, magari a caccia di nuove clienti, indossa sempre il suo grembiule bianco, candido come la sua tenda. Sembra un dottore. Le signore lo salutano sempre con calore, s’intrattengono a chiacchierare con lui e spesso le vedo offrirgli una bibita o chiedergli di scattare qualche foto insieme a loro, per non rischiare di dimenticare quel viso d’angelo dalle mani d’oro.
E’ sempre gentile e sorridente, con tutti. Ma con me lo è di più e da quando scopre il mio nome mi chiama sempre con voce flautata “Paula”, quasi cantando, con un accento divertente che rinuncio a correggere, perché lo trovo delizioso e so che non avrò bisogno di fotografie per ricordarlo insieme al suo sguardo.
Cedo al suo invito solo il giorno prima di partire, quando la nostalgia morde e anticipa l’amarezza del ritorno a casa. Cedo solo per fargli un piacere. E’ strano, eppure non avverto alcun desiderio né necessità di offrirmi alle sue mani. Ma quando quest’ultimo giorno Ramilton mi dice “Ti prego, Paula, oggi vieni alla tenda”, il mio Ok esce di bocca così spontaneo che, senza nemmeno avere il tempo di ripensarci, sento la sua mano afferrare la mia per condurmi nel suo regno. Cammino controvento di un passo dietro a lui e quando di tanto in tanto si volta a guardarmi mi lancia un sorriso talmente raggiante e uno sguardo così grato che mi mette un po’ in imbarazzo.
“Dieci minuti Ramilton, ok? Solo dieci minuti …” E’ il massimo di tempo che voglio concedergli, il perché poi non lo capisco, visto che sono libera e oltretutto adoro i massaggi. Da cosa voglio cautelarmi?
E’ l’ora in cui il calore raggiunge la sua massima temperatura sull’isola e la gente se ne sta tutta al ristorante o a riposare al riparo da sole e vento. Attraversare la spiaggia a quell’ora è un’incoscienza ma a me sono sempre piaciute le incoscienze, così come mi piace sentire la sabbia scottare sotto i piedi nudi, che scavano per cercare il contatto con quella più fresca.
Provo comunque un sollievo immediato appena mi infilo nella tenda, preceduta da Ramilton che tiene sollevato il telo dell’ingresso sbattuto dal vento. Appena dentro ho l’impressione di infilarmi in una conchiglia madreperlata, per via dei raggi del sole che filtrano smorzati e giocano con le ombre sulla sabbia. Tutto è candido e pulito: il lettino, le lenzuola e gli asciugamani ripiegati sul tavolo e la poltroncina dove avrei dovuto lasciare i vestiti. Non ho vestiti, solo un pareo azzurro cielo a coprire il bikini e a ripararmi dalle scottature.
Comunichiamo in silenzio ora, solo cenni e sguardi. Ramilton m’invita a sciogliere il pareo e a distendermi pancia sotto sul lettino, mentre lui dà inizio ai preparativi: si lava le mani versando dell’acqua da una brocca e, dopo averle asciugate lentamente, afferra un alambicco di vetro appoggiato su un piccolo fornello, facendolo roteare adagio in una mano.
Tutti i suoi gesti sono rituali, così lenti da mettermi leggermente in agitazione anziché avviarmi all’abbandono. Mi distendo al rallentatore, ricalcando il suo ritmo, con il viso adagiato su un cuscino talmente soffice che sembra fatto di panna montata. Lo respiro, è fresco e sa di buono. Il silenzio sembra fermare il tempo, solo il sibilo del vento e un sussurrato canticchiare di Ramilton che insegue probabilmente una canzone della sua isola, dolce e triste insieme. Concentrata sulla melodia, cerco a questo punto di rilassarmi, sforzandomi di domare il battito del cuore che, inspiegabilmente, non vuole rallentare. Ho paura che Ramilton se ne accorga, non voglio mostrarmi insicura, quando fino ad ora l’ho considerato e trattato come un ragazzino. Ho tenuto duro così a lungo e ora è lui ad essere il duro! Perché proprio adesso comincio a sentirmi io piccola e fragile? Perché sono nelle sue mani, ecco perché! E lui sapeva sin dall’inizio che avermi qui, nel suo regno, sarebbe stato l’unico modo per ribaltare la relazione e dimostrarmi la sua abilità. Mi sento improvvisamente in trappola, eppure mi piace esserlo.
Immersa in tutti questi ragionamenti, ormai senza speranza, sento Ramilton slacciare il reggiseno del costume da bagno e i lacci abbandonati ai lati della schiena mi procurano un brivido. Impossibile controllare la pelle d’oca, lui l’ha sicuramente notata ma chiudo gli occhi per evitare l’imbarazzo del suo sguardo curioso.
A questo punto, sento qualcosa di caldo piovere lentamente sulla schiena: gocce dense e profumate, forse olio di cocco, che scivolano giù, dalla nuca lungo la spina dorsale, in un rivoletto che si divide in due all’altezza dei lombi. Ramilton sta in piedi di fronte a me, il suo bacino è a un palmo dal mio viso. Senza avvicinare troppo il suo corpo al lettino, sposta leggermente i miei capelli da un lato, liberandomi il collo e accarezzandoli con un gesto gentile e premuroso, come fossero vivi. Ho paura che persino i miei capelli trasmettano fremiti invisibili.
Poi allunga le braccia e comincia a scivolare con le mani lungo la mia schiena, all’inseguimento delle gocce d’olio versate. Prima un lungo e lento massaggio fino alla vita per recuperare l’olio, per poi tornare su, di nuovo alla nuca. Sento i polpastrelli indugiare con cautela, come se stessero cercando il punto segreto per scatenare chissà quale piacere. Eppure mi rendo conto di pensare, anziché sentire. E’ troppo acceso il mio cervello, troppo in guardia, attento a seguire lucidamente i movimenti sul mio corpo, piuttosto che a rassegnarsi a goderne.
“Shhh, Paula, relax…” Ramilton accompagna i movimenti delle mani con respiri profondi e lenti come i suoi gesti, tanto che piano piano riesce ad ammorbidire le mie resistenze. Ogni tanto versa nuovo olio e ogni volta il calore mi mette un brivido. La nuca, le spalle, i fianchi si rassegnano all’esplorazione sempre più piacevole e al ritmo sempre più concitato del massaggio.
Evidentemente Ramilton è sensibile alle risposte involontarie del mio corpo, perché nonostante il mio controllo mi è impossibile nascondere i fremiti che la pressione delle mani sui lombi mi provocano. Ramilton riesce a contenerli entrambi, premendo i pollici all’interno sulla spina dorsale, fino ad abbracciare con le altre dita i fianchi, al sorgere dei glutei, che ora vorrebbero liberarsi dall’ingombrante bikini. E lì le mani si fermano, hanno trovato il punto segreto. Sembrano immobili eppure avverto leggere circonvoluzioni, sussulti caldi che mi penetrano fino dentro alla pancia, con la stessa prepotenza delle onde del mare. Sembra che, con una delicatezza inaudita, quelle mani vogliano scavare sotto la pelle, fino ad afferrare direttamente il coccige per rivoltare e raggomitolare la coda e continuare ad accarezzarmi come fossi un animale selvatico da acquietare.
Per arrivare fin laggiù, Ramilton ha dovuto sporgersi sul lettino e allungarsi tutto sopra il mio corpo e il suo grembiule sulla schiena mi solletica la pelle aumentandone i brividi. Quando schiudo gli occhi, vedo il grembiule in parte sbottonato davanti al viso, ho le braccia raccolte sul cuscino e le mie mani sfiorano il tessuto bianco che si apre sempre di più. Mi basterebbe allungare un dito …
“Paula …. Te gusta?” … I miei mugolii sono eloquenti e Ramilton sa di aver ottenuto definitivamente la mia resa e la sua vittoria. Le carezze oleose hanno conquistato e corrotto l’animale ribelle e diffidente. Il profumo di cocco mi ubriaca di dolcezza e mi sento sciogliere di caldo sempre più dentro, tanto che le cosce si schiudono e il bacino s’inarca senza che io lo comandi. Allungo una mano verso Ramilton, che dietro al grembiule semiaperto non riesce a nascondere la sua naturale reazione e lo incoraggio silenziosamente ad avvicinarsi a me e a mescolare i suoi sospiri ai miei.
L’atmosfera è ormai troppo carica di energia e di attesa perché quel massaggio a senso unico possa durare ancora a lungo. Non posso più restare ferma, il mio corpo scivola come l’olio che ha addosso e non bastano più le mani a domarlo. Nuove onde violente s’impossessano di me e voglio esserne travolta. La tenda bianca s’incendia irrimediabilmente di desiderio, gli oli profumati fanno scintille, evaporano, liberando nell’aria umori animali, densi e incontenibili e le mani scivolano in carezze reciproche, disobbedienti ormai alla ragione e beate vittime degli istinti. Il vento fuori sembra d’un tratto soffiare più forte, per poi placarsi improvvisamente, così come l’incandescenza dell’eccitazione cede spazio lentamente all’estasi del languore.
“Dieci minuti Ramilton, ti avevo detto solo dieci minuti …” mormoro pigramente con un soffio di voce, mentre mi crogiolo molle, esangue ancora abbandonata ad un piacere che non vuole finire. Mi sembra d’essere un ghiotto mollusco protetto dentro la sua conchiglia, cullato lievemente dallo sciacquio del mare. Guardo Ramilton, il suo corpo snello, il suo sesso stanco e il suo volto aperto ad un sorriso di gratitudine che, per la prima volta, mi appare non più come quello di un ragazzo ma di un uomo, un uomo grande, sicuro di sé e del suo potere.
Mi sembra di sentire ancora le sue mani scivolare lungo la schiena, scendere lungo le cosce e afferrarmi forte per le caviglie … forte, sempre più forte … di più, di più, ma che succede? Quelle che afferrano le mie caviglie non sono più mani di velluto ma mani violente … mani fredde che mi strattonano e mi trascinano giù dal lettino, strappandomi al mio molle languore come per punirmi … per portarmi via. Ma per portarmi dove? Mi aggrappo con tutta la forza che mi rimane al lettino ma è inutile: le lenzuola svaniscono come fantasmi, il letto si sgretola come canne sotto la violenza del ghibli. Alambicchi, oli, profumi ed essenze vengono risucchiati da un vortice misterioso, insieme a Ramilton che, con il suo sorriso fiero, sembra salutarmi mentre si allontana sempre di più, fino a sparire del tutto dietro a un sipario evanescente. La tenda diventa sempre più piccola, un fazzoletto bianco minuscolo, che perde inesorabilmente forma e consistenza, fino a svanire anch’essa per sempre nel nulla. La morsa invisibile mi trascina con sé, come un geco sorpreso nella sua tana e strappato via da un predatore alieno verso chissà quale destino. Le mie dita tentano inutilmente di aggrapparsi alla sabbia che invece diventa sempre più cedevole e complice della “cosa” che mi trascina. Improvvisamente, il mio corpo comincia a diventare pesante … sempre più pesante finché, di colpo, tutto si ferma intorno a me. Le mani fredde che mi tengono prigioniera si allentano e io precipito, su qualcosa di morbido e ostile allo stesso tempo. Immobile, a pancia sotto, apro le palpebre a stento e immediatamente un bianco abbagliante violenta i miei occhi. Con le mani comincio a tastare intorno a me e mi rendo conto di giacere tra lenzuola setose di un letto che non somiglia affatto a quello piccolo e magico della tenda. Nell’aria non sento più le note dolci e tristi che Ramilton cantava ma solo un trillo martellante che mi scalpella le meningi. Resto attonita: pochi secondi che mi sembrano durare un’eternità, il tempo per orientarmi come farebbe una esploratrice di fronte a una terra ignota. Non c’è più sabbia intorno a me, né tende, né vento, né mare.
Il trillo insiste … allungo un braccio per fermare quella sveglia crudele che suona sul comodino da chissà quanto tempo. Cerco di riprendermi, di scrollarmi di dosso il torpore di un piacere ormai svanito, la delusione di un paradiso perduto. Così, d’improvviso, mi rendo conto d’essere tornata nel mondo della realtà, in un deserto senza sabbia e senza gechi, senza tende né essenze, senza nenie o carezze ma, come ogni mattina, nel deserto del mio letto! Mentre mi accingo ad alzarmi, giro ancora lo sguardo intorno e, all’improvviso, provo uno strano fremito: appoggiato sulla poltroncina accanto al letto, vedo il mio pareo azzurro cielo, umido d’olio e di sudore. E finalmente sorrido.
“No! Perché? Perché solo dieci minuti?”