Il partigiano francese

Guglielmo quella sera, come spesso accadeva da quando aveva trovato lavoro alla Rumianca di Pieve  Vergonte, si era recato, in compagnia di alcuni amici, a casa della famiglia di  Flora.
Niente quella sera lasciava presagire ciò che di lì a poco sarebbe successo...

La permanenza a Vanzone San Carlo, in alta valle Anzasca, dove si era nascosto per sfuggire ai primi bandi di arruolamento nelle file dell’esercito fascista della Repubblica sociale italiana, era diventata pericolosa.
In paese Guglielmo non era il solo a nascondersi, con lui c’erano altri due ragazzi: il figlio del proprietario di una trattoria della zona  e un nipote del Podestà.
Durante il giorno stavano insieme, ma la notte lui andava a dormire da una signora che abitava  fuori dal paese, in basso: quasi a ridosso del fiume Anza.
La casa era fatiscente, piena di crepe e impregnata di umidità: segni evidenti di un destino d’abbandono.
La proprietaria era molto anziana, o perlomeno così a lui sembrava, silenziosa come lo sono certe donne di montagna rassegnate alla  solitudine.
Silenziosa ma ospitale: per cena, con quel poco che aveva nella credenza, preparava a Guglielmo qualcosa da mangiare, il più delle volte si trattava di una semplice zuppa.
Una sera il podestà gli disse con modi decisi che quella notte non doveva andare a dormire dalla signora:  sarebbe rimasto in paese con il suo nipote e l’altro ragazzo.
Il giorno successivo Guglielmo seppe che durante la notte c’era stata una retata dei fascisti.
Avevano scoperto  che alla casa sul fiume facevano tappa delle persone (ebrei o ex militari) intenzionate a espatriare; giunte in quel luogo trovavano ad attenderle dei contrabbandieri  che, seguendo percorsi solo a loro conosciuti e spesso innevati,  le guidavano sino al confine con la Svizzera.
Il podestà, per via della sua carica, era venuto a conoscenza dell’imminente  retata e  aveva deciso di salvare almeno  Guglielmo,  che altrimenti  sarebbe stato arrestato e con lui probabilmente anche gli altri  due ragazzi.
Ma non era stato solo quello scampato pericolo a fargli  maturare la decisione di abbandonare Vanzone; ai primi bandi di arruolamento ne erano seguiti altri, ben più pressanti nei confronti sia dei  renitenti che dei loro familiari.
L’unica possibilità per restare e mettersi al riparo, era di trovare lavoro in qualche attività o fabbrica considerata strategica dai tedeschi.
Ma  in alta valle Anzasca la sola via d’uscita era un tunnel, o meglio una galleria: la miniera d’oro di Pestarena a  Macugnaga.
Lì già lavoravano i suoi due amici, ma purtroppo quando si presentò (tra l’altro poco allettato dall’idea di fare il minatore) gli dissero che erano al completo e avevano chiuso le assunzioni.
Decise allora di tornare a casa, anche per sollevare i genitori dalle minacce di gravi ritorsioni.
Si presentò in caserma al distretto di Varese per arruolarsi, poi però, nel pomeriggio dello stesso giorno, scappò e risalì in valle Anzasca.
La conseguenza fu che aggravò la sua posizione, perché da renitente diventò disertore.
Nelle settimane  successive, sua cugina, maestra  in quei paesi di montagna,  riuscì  a  fargli avere una lettera di presentazione firmata dalla dirigente scolastica di Stresa.
Con quella lettera si  recò alla Rumianca, una ditta chimica di Pieve Vergonte dove fu assunto come apprendista  manovale. 
Iniziato il lavoro, grazie all’aiuto di Flora,  segretaria del direttore della fabbrica, riuscì ad avere l’esonero italo/tedesco che lo sollevava, almeno nell’immediato, dal pericolo di subire le conseguenze del suo essere disertore ai bandi della R.S.I.
A Pieve,  Guglielmo ed Eugenio, un ragazzo di Omegna che  come lui non voleva combattere per i fascisti, trovarono rifugio in una baita appena  fuori dal paese.
Una vecchia stalla di montagna per essere precisi: sotto il ricovero per le bestie e subito sopra, nel soppalco in legno, lo spazio per i pastori; su quelle quattro tavole contorte e sconnesse sistemarono due pagliericci per dormire.
La baita, a  parte la porta d’ingresso, aveva solo un piccolo pertugio sul retro: utile via di fuga in caso di necessità.
La sera, dopo il lavoro e prima di ritornare al loro rifugio, con cautela la casa di Flora li accoglieva: brevi parentesi di tempo in cui emergevano i racconti dei primi nuclei partigiani, e liberamente discutevano, progettavano, fantasticavano sul loro futuro di giovani ribelli;  ma soprattutto  ritrovavano quel clima familiare che avevano lasciato e di cui, principalmente nelle ore notturne, quando i pensieri si facevano pesanti, sentivano l’assenza.
La casa della ragazza era situata sulla piccola piazza del paese, di fronte stavano  l’asilo e  un’osteria.
Guglielmo in quel periodo non aveva ancora maturato la scelta di  aderire al movimento partigiano; era cresciuto in un mondo fascista, in una scuola fascista, ma provava fastidio per la divisa, le sfilate, le interminabili adunate, l’obbligo alle stupide esercitazioni della fine settimana.
Trovava ridicoli i goffi e arroganti gerarchi locali in divisa con le aquile sul cappello a imitazione del capo, dell’uomo “mandato da Dio” che faceva scrivere sui muri, come fossero pagine della Bibbia,  le massime da ricordare.
Da quelle insofferenze era scaturita la ribellione, il rifiuto netto a prestare sostegno alla R.S.I. e al suo esercito, e di conseguenza la decisione di lasciare il paese, la famiglia, gli amici.
Avrebbe potuto spingere oltre la sua ribellione, ma l’Ossola in quei mesi  viveva  un periodo particolarmente difficile, che non aiutava a scegliere. 
Il regime si stava di nuovo radicando sul territorio, faceva sentire la sua funesta presenza:  c’era stata la strage di Megolo, dove era stato ucciso il Capitano Beltrami e undici  uomini della sua formazione, e la dispersione dei movimenti Partigiani di Omegna e val Strona.
Colpi duri da riassorbire, bisognava ricominciare praticamente da capo: trovare nuovi volontari, riorganizzarsi, decidere strategie diverse da quelle seguite sino a quel momento.
In quel breve e precario periodo  non era strano trovare Partigiani allo sbando, che agivano individualmente o quasi, isolati geograficamente e politicamente dalle formazioni che nelle altre valli  alpine andavano crescendo.
Per esempio a Pieve, sempre stando attenti a chi si aveva di fronte o alle spalle, si parlava di un giovanottone sui vent’anni che circolava sulle montagne che facevano da cornice ai paesi del fondovalle.
Si diceva Partigiano, non apparteneva ad alcuna formazione, né si sapeva chi fosse, da dove venisse, forse d’oltralpe, non portava con sé documenti, per tutti era diventato “il francese”.
Viveva girando tra le baite, dove riceveva aiuti dai valligiani; non aveva creato che piccoli problemi, appariva e scompariva, ma intanto la sua fama cresceva.
La cosa dava parecchio fastidio ai militi del  comando fascista:  non potevano tollerare che al mito del Capitano Beltrami, ancora presente nonostante la sua morte, se ne affiancasse un altro.

…Quella sera in casa di Flora il discorrere fu bruscamente interrotto da un susseguirsi rapido  di rumori provenienti dalla piazza:  prima il rombo di alcune camionette in arrivo, poi un crescendo di  voci alterate e spari.
Avevano ucciso il francese.
Il giovane ragazzo, sceso in paese, era entrato nell’osteria: per bere o per mangiare qualcosa, o forse più semplicemente per stare un po’ in compagnia.
La spiata era arrivata subito al comando dei militi fascisti di turno, ai quali non sembrava vero di avere un partigiano così a portata di mano.
Quando Il manipolo di uomini entrò nell’osteria con le armi spianate, il giovane tentò una disperata fuga; con un rapido scatto riuscì a scansare alcuni armati e ad uscire, ma quando fu sulla piazza una raffica di mitra fermò la sua breve corsa.
Tornato  il silenzio Guglielmo aprì con circospezione la porta di casa: giusto lo spazio per potersi affacciare e vedere.
Era una serata buia, le stelle e la luna, come in un presagio di dolore, avevano preferito volgere il loro sguardo altrove; una pioggia tignosa avvolgeva il tutto in un’oscurità angosciante.
Solo un piccolo e solitario  lampione illuminava l’angolo della piazza; in quel cerchio di luce stava il giovane Partigiano.
Era steso sull’asfalto con le braccia in avanti, le mani aperte e le dita che sembravano voler grattare l’asfalto, come in un estremo tentativo di fermare la morte; dal suo fianco  una macchia di sangue si allargava sul nero del catrame reso lucido dalla pioggia.
Un cane,  dopo aver ripetutamente annusato il ragazzo, cominciò a leccare il sangue tiepido.
Fu lasciato così tutta la notte.
Guglielmo lo rivide il giorno dopo nella cappella mortuaria del cimitero:  un bel viso giovane contornato da una folta capigliatura e da una lunga barba, un corpo massiccio costretto dentro una cassa di legno grezzo.
Ancora oggi a Guglielmo capita di visualizzare l’immagine di quella notte assassina: un orizzonte emozionale che  ogni volta torna a lacerare l’anima; ma nel momento in cui tutto accadde, qualcosa in lui cambiò.
Dopo tanti racconti, discussioni, ragionamenti, fantasie, speranze, dopo tanta teoria,  per la prima volta gli capitava di trovarsi di fronte alla dura realtà di una morte violenta.
Pensando alla rabbia vigliacca e spropositata con cui era stato freddato il ragazzo, alla sua giovane età,  alla speranza delusa e al dolore della famiglia, provò rabbia e desiderio  di riscatto: come se quel sangue offeso  fosse stato il suo,  come se la famiglia del giovane Partigiano fosse la sua.
Doveva, dovevano tutti fare qualcosa, non potevano regalare il loro futuro alla follia senza speranza, a dei criminali seminatori di morte; quel ragazzo massacrato senza pietà urlava giustizia.
Era giunto il momento di scegliere, di trovare il coraggio civile di ribellarsi e combattere.

Dopo quel tragico evento maturò in lui la decisione di diventare Partigiano.
Rimase in fabbrica e in paese ancora alcune settimane,  poi abbandonò tutto e salì in montagna.
Su quelle alture trovò tanti giovani; altri e altri ancora arrivarono.