Il più bello dei mari

“Baci e Abbracci” – recitava la t‐shirt bianca, con le lettere coperte da paillette ‐ proprio all’altezza di quel seno così generoso ‐ ma lui recepì solo in parte quella scritta come un esplicito invito. Dopo una leggera stretta di mano ‐ forse un po’ troppo rapida ‐ Mattia chiuse la porta, ringraziò, appoggiando sul mobile basso dell’ingresso il bellissimo vaso di fiori, si scusò e corse ad abbassare il gas dei fornelli. “Quanti viaggi!” ‐ esclamò Alice entrando in cucina, dopo aver velocemente squadrato la lavagna di sughero con le foto e le cartoline fermate dai piccoli cilindri colorati. “Crêperie Saint Germain – 33, rue Saint‐André‐des‐Arts – 75006 Paris” – i caratteri scuri dell’indirizzo emergevano da un cartoncino spiegazzato e spostandolo solo un po’ trovò il biglietto di un teatro: “n. 35 – file central”. Al centro i pescatori di Amalfi ‐ stampati in bianco e nero ‐ ritiravano le paranze in secca prima del tramonto, davanti al Convento dei Cappuccini. Poco più in alto, infilato nell’angolo quasi in castigo, un Fidel Castro giovane e sorridente stringeva la mano ad un Ernest Hemingway appesantito dagli anni e dall’alcool. La ragazza, tra sorpresa ed eccitazione, non sapeva più cosa guardare per prima esitando, avidamente, persino sulle date delle bollette prossime alla scadenza e sistemate in primissimo piano. Non voleva girarsi per paura di perdere l’amabile disordine di una vita ricca di colorate emozioni ‐ proiettata in maniera così distratta e convenzionale su di una stantia parete d’angolo ‐ ma già da un po’ sentiva alle sue spalle lo sfrigolio dell’olio e l’odore dei germogli di bambù, nel wok dal fondo arancio. Nel loro ultimo incontro, di fronte all’ascensore, lei aveva suggerito una cena cinese e lui adesso improvvisava uno spezzatino di pollo al curry separando i pezzi di carne sul tagliere. Alice continuò a guardare ancora per qualche secondo quel rettangolo di sughero, un po’ patchwork, cercando di trovare un nesso logico tra tutti quegli oggetti. “Cotto o gamberetti?” – chiese il padrone di casa, interrompendo quell’enigma non facilmente risolvibile, mentre in attesa della risposta rimaneva con i vassoi sulle mani offrendo al prosciutto l’alternativa dei crostacei ‐ dopo aver realizzato con entrambi la forma di un cuore ‐ piegato leggermente in avanti, plastico ed elegante come un métre del Grand Hotel. Il riso era già al centro del tavolo, nella grande coppa avorio di porcellana bone china ricamata a fiori blu, e bisognava solo decidere come condirlo. “Che domanda – tutti e due!” – rispose lei, avanzando con passo sornione verso la sagoma dell’uomo che, fermo sulle gambe, continuava a proporre le due portate in silenzio muovendo a scatti le braccia alla maniera di una maschera del teatro dell’arte che ha dimenticato la battuta. Spiazzato dalla salomonica quanto scontata conclusione della donna ed assistito fisicamente dalle sue mani, Mattia rovesciò il contenuto di entrambi i piatti regalando, così, a quei chicchi bianchi ed un po’ allungati la giusta vivacità di una pietanza orientale. Tra i piatti unti della cena, lui le continuava a parlare di Cuba e dell’anziano professore di Matanzas con i frammenti di tabacco appiccicati sui denti. Del suo alito rancido e delle sue mani nervose che agitavano un mozzicone spento tra le dita, facendogli perdere i pezzi migliori.
Nel suo racconto anche le pieghe nella pelle del viso di quell’uomo ricordavano un vecchio cohiba confezionato male. Avrebbe ancora insegnato storia antica se la rivoluzione fosse andata diversamente o se glielo avessero permesso invece adesso, coperto di stracci e seduto tra i cartoni di frutta e le mosche, intratteneva i turisti di fronte la vecchia stazione. Parlava un discreto italiano. Erano parole buone per tutti ed imprecazioni per qualcun’altro. Senza mai pronunciare il suo nome riusciva ad imitarlo perfettamente. La sua fisionomia, il suo carisma. Con una mano si raddrizzava il berretto militare e con l’altra, allungandosi la punta del mento verso l’asfalto, simboleggiava una lunga barba. Infilò il dito indice della mano destra in una banana sfatta, piegando l’avambraccio verso l’alto, e con una mimica perfetta marciava sul posto come avrebbe fatto un veterano durante una passerella militare.
“CALIGULA! CALIGULA!” ‐ gridava, imprecando verso quel cielo così bello, convinto che la maggior parte dei presenti non avrebbe mai capito il suo lamento disperato. Per ironia della sorte, dietro di lui il solito cartello di propaganda ritraeva il Leader Maximo ed il Comandante a cavallo sotto la scritta a caratteri cubitali “Hasta la Victoria Siempre”. Lui, un metro e sessanta di cultura e dignità, sapeva perfettamente di cosa stava parlando. Dilatati per la rabbia gli occhi, ingialliti ed affamati, brulicavano di capillari ed erano proprio la sua cultura e la sua dignità, malamente coperte in questo triste presente da indumenti lisi e polverosi, che non gli avevano mai permesso di chiedere l’elemosina per mangiare. La conferma della sua bravura gli venne dal viso del giovane estasiato per quell’ottima ricostruzione ‐ forse un po’ troppo d’avanspettacolo ‐ e dal dollaro gualcito dalle tasche che questi gli stendeva. Adesso, con quella banconota verde tra le dita, era quasi commosso. Una lezione di storia della Roma Imperiale ad un italiano non gli capitava tutti i giorni ed allora il vecchio, dopo aver barattato la cartamoneta con l’equivalente ‐ secondo le sue possibilità ‐ di una logora patacca in metallo mangiata dal tempo, gli strinse la mano rubandogli l’ultima promessa ‐ “Racconta a tutti le penose condizioni di vita della mia gente”. Mattia l’aveva rispettata almeno in una ventina di occasioni, ma ogni volta il suo interlocutore, dopo avergli sorriso amaramente, divagava chiedendo un reportage completo e dettagliato delle calde e famose notti cubane. “Mala suerte, mala suerte” ripeteva a bassa voce, guardando il barista attraverso le bollicine dorate della cervèza nacional, rimovendo nervosamente il sello de garantia bianco e verde dalla bottiglia appena uscita dalla ghiacciaia. Dal piccolo altoparlante, incastrato tra le botticelle di Anejo, ascoltava distrattamente una canzone di Celia Cruz. Le parole fresche di El Carnaval rimanevano sospese nell’aria condensate nelle gocce di umidità e racchiuse tra il calore ricacciato dalla terra e l’odore acre dei sigari. Lanciando in aria la moneta ripensava al vecchio docente ingabbiato in una rivoluzione che durava ormai da più di quarant’anni. Lui forse no, ma su quella nazione circondata dal mare qualcuno di sicuro l’aveva vinta. “Testa o croce” ‐ intimò alla sagoma dai contorni scuri mentre il disco in lega d’ottone da un Peso ruotava in aria velocemente. Il suo interlocutore la prese al volo per poi schiacciarla con forza sotto il palmo calloso della mano sul bancone di legno di mogano, mostrando un’ebete sorriso di soddisfazione. Apparve l’effigie di Josè Martì con la scritta “PATRIA O MUERTE”. Mattia la raccolse e la rimise in tasca pagando la cuenta in dollari, unico vero dinero che aveva ancora valore su quell’isola. Era l’ora di ripartire e dopo aver lasciato un dollaro di mancia al tassista, gliene rimanevano ancora venticinque. Una volta consegnata quella cauzione alla dogana sarebbe uscito definitivamente dagli ingranaggi contorti e corrotti di quel paradiso terrestre martoriato dagli uragani. Al cambio attuale quel denaro equivaleva, per lui, ad una serata tra amici in pizzeria, ma la gente di quell’isola ‐ affamata dall’embargo ‐ per arrivare a quella cifra doveva arrotolare le foglie di tabacco per due mesi e mezzo. Riflettendo su quella realtà così paradossale accompagnava con lo sguardo la valigia che rullava sul nastro trasportatore ‐ segnata dal cordoncino bianco, rosso e blu che l’hostess aveva messo intorno al manico ‐ pensando alla cassetta di puros che avrebbe viaggiato con lui avvolta nella biancheria sporca. “Prosit” ‐ disse Alice, proponendo un brindisi con il bicchiere di sakè alzato verso il volto leggermente contratto di Mattia, interrompendo la narrazione di quel viaggio per qualche secondo. Dopo aver bevuto un ultimo sorso di riso fermentato si alzò di scatto, andando verso il frigo, incuriosita dalle scritte sul piccolo foglio che si muoveva leggero ‐ bloccato in cima solo da un magnete ‐ e che da seduta non riusciva a leggere bene. “Il più bello dei mari è quello che non navigammo” – era la prima di quelle quattro frasi e le parole uscirono dalle sue labbra in modo un po’ algido. Mattia che le conosceva a memoria cominciò a recitarle ‐ partendo dal secondo inciso ‐ nello stesso istante in cui la sua ospite, in piedi, riprendeva la lettura cercando questa volta la giusta intonazione. “Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto”. – continuò con la voce maschile in sottofondo che la supportava e gli faceva da eco a brevissima distanza. Dopo quel secondo brano il padrone di casa si era alzato muovendosi verso di lei che, ricominciando a leggere con sempre maggiore intensità ed impegno, non si era accorta della sua presenza. “Il più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti” – recitarono le due voci all’unisono, sottolineando il sentimento sincero che quelle semplici parole riusciva ad ispirare. Durante quell’ultima frase erano uno di fianco all’altro, lei continuava a leggere, mentre l’uomo, declamando a memoria, guardava quel profilo botticelliano con un certo incanto.“E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto”. Finiva così quella lirica d’amore scritta tanti anni prima da un uomo innamorato della vita, della libertà, ma soprattutto della sua donna. I loro occhi continuavano a riempirsi ancora del sapore originale ed avvolgente di quelle parole. Una specie di incantesimo, una formula magica, un rito di iniziazione che andava siglato per renderlo valido ed indissolubile. Si baciarono.